“Covid-19…Il Paese che verrà/18” Fabrizio d’Esposito l’informazione

fabrizio-desposito-225x300Il mondo dell’informazione ha giocato e continuerà a giocare un ruolo fondamentale nella narrazione di questa stagione. Probabilmente ci accorgeremo più in avanti delle trasformazioni radicali che sono intervenute nel modo di comunicare e di relazionarci tra di noi in un’emergenza planetaria. Ne abbiamo parlato con un professionista del settore, Fabrizio d’Esposito, capo servizio politico de “Il Fatto Quotidiano”, uno dei pochissimi giornali che ha trattato l’argomento senza il pregiudizio di chi ha visto nell’emergenza l’occasione per assestare il colpo fatale alla leadership di Giuseppe Conte, ma analizzando i fatti senza rinunciare a quello spirito critico che rappresenta il sale del giornalismo a prescindere. d’Esposito, con una lunga carriera alle spalle, è diventato una delle colonne portanti del gruppo editoriale fondato da Padellaro e Travaglio, un osservatore attento e puntiglioso dei fatti della politica e del circo mediatico che va in onda h24 in tutte le salse.

Dottor d’Esposito il coronavirus ha rivoluzionato anche il mondo dell’informazione, del giornalismo in generale e della comunicazione. Parliamone…

“Il primo, grosso cambiamento ha investito il modo di pensare, costruire e scrivere il quotidiano. In piena era digitale, dove l’informazione deve coniugarsi con l’integrazione tra old e new media, abbiamo sperimentato a livello massiccio il cosiddetto smartworking. Qui al Fatto, nella redazione romana, è rimasta una squadra tra direzione e capi di dieci dodici persone, compreso me, che ha seguito in modo tradizionale la fattura del giornale. Il resto è radicalmente cambiato: le riunioni con Zoom, i due terzi dei colleghi a casa a lavorare da remoto. In un certo modo è come aver anticipato il futuro epperò con tutte le difficoltà di un’emergenza come questa. Non solo. L’esperienza di questi due mesi mi ha convinto che un luogo reale dove confrontarsi e lavorare, in questo caso la redazione, sarà ancora necessario per lungo tempo. Videoconferenze e telefonate possono aiutare, ma non sostituire del tutto la fisicità, chiamiamola così, del giornalismo. Per usare una metafora: c’è la stessa differenza che passa tra una pagina “passata” a video, dove qualcosa sfugge sempre, e una stampata e guardata da vicino”.

Rispetto ad altri eventi tragici, più o meno recenti, qual è la differenza che si registra col covid-19?

“Ovviamente c’è la narrazione, il racconto degli eventi. Il giornalismo d’emergenza, in passato, è sempre stato circoscritto in un dato periodo temporale. Si prenda un terremoto: dapprima dieci, quindici pagine, indi una progressiva diminuzione. Con la pandemia del Coronavirus questa narrazione è diventata permanente, se non ossessiva, come in un lungo periodo di guerra. E il racconto dei fatti, per la prima volta forse, ha dovuto tenere conto, con il passare dei giorni, anche del livello d’ansia e di angoscia dei cittadini. Si pensi alle conferenze stampa della Protezione Civile fino a poco tempo fa quotidiane. La loro riduzione a cadenza bisettimanale, il lunedì e il giovedì, contiene proprio questa esigenza. Così come la Rai ha deciso a un certo momento di arginare il flusso d’informazioni continuo e dare più spazio all’intrattenimento. Anche noi al Fatto ci siamo posti il problema: accanto alle sezioni hard del quotidiano (cronaca innanzitutto, poi politica ed economia) si è riflettuto su come alleggerire lo sfoglio con un lato bianco, se non divertente di questo tempo pandemico. A differenza di altri eventi (una crisi di governo, le elezioni politiche, un terremoto) stavolta la narrazione della pandemia ha toccato tutti i settori della popolazione, nel senso che ognuno si è sentito coinvolto. Non solo: sullo sfondo di questa ansia c’è il bene più prezioso che abbiamo. Cioè, la vita. E confrontarsi con questa preoccupazione rovescia la gerarchia delle notizie e dei commenti. Fateci caso, il racconto della politica è passato completamente in secondo, se non terzo piano: le divisioni, i litigi, le polemiche. Non a caso, il principale chiacchierone populista del Paese, Matteo Salvini, ha cominciato a perdere pesantemente consensi”.

C’è stata qualche sorpresa per il mondo dell’informazione?

“La scoperta principale in questa emergenza è stata quella del giornalismo scientifico. All’improvviso epidiemologi, virologi, infettivologi, esperti medici compresi gli psicologi, sono stati più ricercati e interessanti dei politici, di solito il genere più interpellato o intervistato. Qualcuno ha parlato di dittatura della scienza o delle competenze. Fatto sta che tutte le decisioni politiche sono state dettate o indirizzate dalla scienza. Non poteva essere altrimenti, almeno sulle grandi linee. Allo stesso tempo, poco tempo dopo l’inizio del fatidico lockdown dell’11 marzo, è cominciata la pressione degli industriali per riaprire. Si è riproposto il classico conflitto tra salute e impresa (vedasi in passato il caso Ilva di Taranto) riassumibile nella formula: “La borsa o la vita?”. Meno battuto a dire il vero il conflitto tra diritto alla salute e diritti di libertà. Solo gli sciocchi o i faziosi possono parlare di autoritarismo dei cosiddetti Dpcm del premier Giuseppe Conte”.

Sul piano politico, invece, quale pensa sia stata la maggiore sorpresa?

“Il racconto della politica è stato limitato al lavoro del governo e degli esperti per le misure da prendere. La cosa che più mi ha colpito è che questi sessanta e passa giorni di emergenza hanno ribaltato l’idea di Unione europea che avevamo. Laddove non è riuscito il sovranismo ci è voluto il Coronavirus. E’ questo uno degli elementi principali destinati a pesare ancora in futuro nel racconto degli eventi. I vari aspetti della pandemia hanno avuto comunque una scansione tradizionale: il racconto sul terreno finché è stato possibile (sono numerosi i colleghi costretti alla quarantena in Lombardia); la ricerca degli errori e della gravi omissioni fatte all’inizio; i primi scandali giudiziari; il fact checking sui provvedimenti del governo, in particolare sul caos mascherine. Ecco quest’ultimo è un caso di scuola: quando mancavano del tutto ci hanno raccontato che non servivano. Oggi invece è il contrario. Classico caso di bugia per coprire lacune e ritardi. Un altro aspetto che sta emergendo è quello della privacy, con tutte le incognite e le cose non spiegate legate a Immuni, l’app per tracciare chi incontra un contagiato”.

In questa emergenza ci sono due termini che sono diventato quasi un’ossessione quotidiana: tamponi e fake news… Il primo per diagnosticare il male, le seconde il male da cui difenderci…

“Preponderante è stato l’aspetto medico con la questione dei tamponi. Si è scoperto che persino in un’emergenza del genere ci sono stati dei privilegiati. Vip che non hanno avuto difficoltà a telefonare e farseli fare. La casta dei tamponi l’abbiamo chiamata.
Quando una catastrofe investe un’intera popolazione è vitale tenere sotto osservazione le fake news generate dal variegato mondo dei social. Si va da quelle più basiche che hanno impazzato all’inizio (i sintomi, le mascherine, eccetera) a quelle più specifiche come il virus creato in laboratorio in Cina, secondo le scontate teorie complottiste”.

Quale sarà il futuro della professione giornalistica dopo il coronavirus?

“Molto ci sarebbe ancora da dire sugli aspetti della mia professione in questa fase. Ma mi limito a una domanda finale: cosa resterà di tutto questo? Spero una maggiore sobrietà dell’informazione, innanzitutto, come è stato in queste settimane, e mi auguro una normalità diversa, meno urlata, appunto. Il Coronavirus ha operato una selezione della cialtroneria politica (Salvini ma anche Renzi): in questo Paese, però, basta poco per dimenticarsi tutto e tornare ai vecchi vizi”.

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