Lettera aperta all’On. De Falco…
Egregio Onorevole, non la conosco se non per le interviste che l’hanno vista splendido protagonista. Ammetto che nulla so dei suoi trascorsi umani e professionali che l’hanno interessata prima di Livorno e della vicenda del Giglio.
Parimenti, lei, nulla sa dei miei trascorsi.
Potremmo comunque definirci colleghi. Abbiamo, entrambi, frequentato l’accademia navale di Livorno dove io ho conseguito la prima parte dell’abilitazione alla conduzione di unità navale e al comando di sezione e stazione navale.
Nel 1988 mi ritrovavo, nonostante avessi già trascorso quattro anni in un istituto militare ed avendo conseguitola nomina ad ufficiale, nuovamente tra i banchi insieme ad altri tre colleghi più anziani di me ed una ventina di giovanotti in doppio petto blu scuro con i galloni sottopannati di grigio sui polsini. Quei ragazzi erano gli ufficiali a nomina diretta del Corpo delle Capitanerie di porto. Insieme abbiamo studiato, ci siamo confrontati, abbiamo sognato. Era l’anno della cd legge di salvaguardia del mare che avrebbe costituito la Guardia Costiera a deprimento delle ambizioni che noi in giacca grigia nutrivamo, per tradizioni, anzianità della specialità, risultati di servizio, capacità e dislocazione operativa e tonnellaggio totale del naviglio.
Ci siamo ammazzati di botte? Ci siamo fatti la guerra? Nulla di tutto questo. Quei giovani, ex ufficiali di marina di complemento e laureati o ex comandanti di navi mercantili, hanno camminato per otto mesi fianco a fianco con noi finanzieri e ci siamo supportati nelle prove che il corso di studi presso la DCU (Direzione Corsi Ufficiali) poneva lungo il nostro cammino.
Sa, se lo ha vissuto, cosa vuol dire amore per il mare. Da parte mia l’ho ben chiaro dai tempi del liceo quando dalla terrazza sul golfo di Napoli vedevo il mare punteggiato di blu scuro con alcune macchie grige. Ho amato, ed amo ancora, quelle pazze evoluzioni tra gli scafi dei contrabbandieri e i guardacoste e le vedette della finanza.
Non so cosa lei abbia sognato da giovane di diventare da grande: io desideravo comandare uno di quei mezzi ed il destino in questo è stato magnanimo.
Ho preso imbarco ed ho avuto l’onore di comandare unità che mi hanno portato nei peggiori scenari operativi ma anche i più ricchi di soddisfazioni, sia professionali che umane.
Lei cosa ha fatto onorevole? Ha mai preso parte ad una operazione di pg, magari con mare grosso ed a luci spente? Ha mai soccorso qualcuno che non sia stato preso da un colpo di sole allo stabilimento balneare? Ha mai dovuto recuperare un sub morto da giorni ed issarlo a bordo per riconsegnarlo, il più dignitosamente possibile, ai suoi cari?
Dal suo “salga a bordo, cazzo” ho avuto la sensazione che poco sapesse di cosa sia l’andare per mare e nemmeno come si possa diventare comandanti di una nave da crociera.
La sua sicumera da passacarte è passata sopra tutto e sopa a tutti, anche sui quei trenta morti e 1500 passeggeri che avevano messo la propria vita nelle mani di, a suo modo di vedere, ubriacone ganimede incapace.
Quella notte, egregio rappresentante del popolo, mentre lei rilasciava interviste e foto nel caldo ufficio di Compamare, un mio ex allievo, oggi preclaro ufficiale del navale, sfidava, insieme al suo equipaggio, il mare e la fredda notte invernale. Lei ha preso il merito dei soccorsi e del successo dei pochi decessi perchè così sancisce il codice della navigazione e la Solas, ma lei non ha fatto nulla di concreto.
Oggi lei è lei ed io non sono un cazzo eppure non perde occasione per dar prova della sua ignoranza.
Definire il personale della Guardia di Finanza ed il suo naviglio come pedine sacrificabili è esecrabile sia in termini di diritto che di insipienza del tributo che questo comparto ha versato, in tempi di guerra e di pace, allo Stato di diritto ed alla libertà democratica che questo rappresenta.
Ha varcato il portone di Montecitorio e si bea quando la guardia d’onore le porge il saluto militare, ma lei non sa un bel niente.
Non sa delle storie e preoccupazioni della gente di mare, non conosce, probabilmente, nemmeno la preghiera del marinario.
Me ne frego se lei non crede in valori che non sia per il suo personale tornaconto e la invito a leggere le righe successive e meditarne mentre passeggia col cane o col portaborse di compagnia.
«A Te, o grande eterno Iddio,
Signore del cielo e dell’abisso,
cui obbediscono i venti e le onde, noi,
uomini di mare e di guerra, Ufficiali e Marinai d’Italia,
da questa sacra nave armata della Patria leviamo i cuori.
Salva ed esalta, nella Tua fede, o gran Dio, la nostra Nazione.
Da’ giusta gloria e potenza alla nostra bandiera,
comanda che la tempesta ed i flutti servano a lei;
poni sul nemico il terrore di lei;
fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro,
più forti del ferro che cinge questa nave,
a lei per sempre dona vittoria.
Benedici , o Signore, le nostre case lontane, le care genti.
Benedici nella cadente notte il riposo del popolo,
benedici noi che, per esso, vegliamo in armi sul mare.
Benedici!»
(La preghiera del marinaio di Antonio Fogazzaro)
di Vincenzo Romano