Le ricerche storiche di Francesco Saverio Esposito: “La Marina di Cassano tra ‘600 e ‘800”
Proponiamo ai nostri lettori l’ultimo lavoro dell’avv. Francesco Saverio Esposito che ha focalizzato la sua ricerca sulla storia locale della Penisola Sorrentina sulle tradizioni marinare di Piano di Sorrento e della Marina di Cassano.
Che cosa rappresentasse per la marineria del Piano di Sorrento la Marina di Cassano tra il ‘600 e l’800 è facile da intuire e affiora con estrema chiarezza da antichi attinotarili (tratti dall’Archivio di Stato e dall’Archivio Notarile) e dalla raccolta deidocumenti custoditi nella Basilica di S.Michele: il reale centro della vita economica del paese. D’altronde il primo nucleo abitato di Piano di Sorrento si era sviluppato non distante, immediatamente al di sopra del costone tufaceo nel quale è incassata Marina di Cassano, intorno agli antichi rioni di S. Giovanni (dove nel 1326 le famiglie Cota e Maresca avevano edificato la omonima cappella gentilizia), Cassano e Gottola collegati attraverso un asse viario formato dai vicoletti di Gottola e S. Margherita prima con lo slargo dov’era (ed è) la chiesa di S. Michele (con l’annesso Convento di S.Maria della Misericordia) e, poi, con il centro indicato in tutti gli atti notarili come Carotto. Nel ‘600 non esisteva ovviamente Piazza Cota, ma uno spiazzo più ridotto (di sicuro nella prima metà del ‘700 l’area oggi occupata dal Comune e quella a lato occupata dal palazzo Maresca, edificato nel 1844, era costituita da giardini di proprietà di Don Saverio Lauro, Ufficiale di Dogana, che li aveva ereditati da sua padre Giovan Battista Lauro deceduto nel 1736).
Da qui si dipartivano due ulteriori diramazioni, via Casa Rosa (dal nome dell’antica famiglia di maestri d’ascia della Marina di Cassano, i De Rosa) e via del Lauro (perché abitato dalla antica famiglia Lauro) entrambi confluenti su via Bagnulo. Questa, fino alla metà dell’800, era poco più di un viottolo stretto che, percorso in direzione del mare, ricollegava nuovamente il centro di Carotto ai rioni più vicini alla Marina di Cassano ed alla Marina stessa. In alcuni atti notarili del Notaio Michelangelo D’Urso, uno del 13 febbraio 1732 e un altro dell’ottobre 1734, vi è espresso riferimento alla piazza di Carotto segnalata come luogo di contrattazioni commerciali e sede di uffici pubblici tanto da avere un posto di gendarmeria. In altri documenti notarili, sempre risalenti al XVIII secolo, a firma del Notaio Biagio Massa, si fa pure menzione ad un ufficio giudiziario chiamato Reale Corte della Bagliva (di cui ho trovato anche un riferimento alla fine del XVIII secolo allorquando era retto dal Magnifico Beniamino Russo. La Giurisdizione della Bagliva fu abrogata sotto il Regno di Giuseppe Bonaparte nel 1808), di Uffici di Dogana e della Gabella della farina.
L’atto del 1732 contiene un testimoniale fatto stilare da tale Capitano Antonio Maresca per precostituirsi prova in una vertenza commerciale con tale Antonio De Martino della città di Nocera con cui si era incontrato per affari nella piazza di Carotto. Con l’atto del 1734, invece, il Notaio D’Urso raccolse prova della lagnanza elevata al posto di guardia di Carotto dai sig.ri Onofrio e Camillo De Ponte (i De Ponte costituivano un’antica ed illustre famiglia del Piano di Sorrento che ha espresso capitani, armatori, avvocati e notai. Aveva propria cappella gentilizia nella Chiesa di S. Michele sormotanta da un quadro di un pittore del ‘600, Giacomo de Castro. La cappella fu eliminata durante i lavori di ristrutturazione dell’edificio religioso nel 1886). I due De Ponte, nell’occasione agivano quali eletti del Piano nel parlamentino di Sorrento posto in Sedil Dominova e lamentavano inadeguata (probabilemmte sulle attività mercatali) attività di controllo.
E, nondimeno, due episodi descritti in altri atti, di cui uno del Notaio Antonino Arcangelo Massa del 23.8.1733 e un altro del notaio Crescenzo Pollio del 15.5.1743, meglio ci offrono idea di quale potessero essere le interrelazioni tra il centro di Carotto e la sua Marina.
Nel 1733 il Capitano Costantino Lauro (figlio del cap. Giuseppe e di Grazia Maresca), giunto alla Marina con il suo bastimento, vi sbarcò alcune partite di stoccafisso nonché polvere da sparo e canne per costruire pistole e fucili. Quanto sbarcato venne trasportato al mercato di Carotto che, probabilmente, si teneva proprio in parte dell’area oggi occupata da P.zza Cota. Ivi fu posto in vendita a commercianti non solo locali ma anche provenienti da altre località limitrofe. In pratica anche all’epoca Piano di Sorrento era (come oggi) il centro commerciale dell’intera Penisola ed anche oltre.
Nel 1743 il Capitano Andrea Buonocore della città di Vico Equense conciliò sul suo bastimento una lite giudiziaria sorta con commercianti di grano del Piano di Sorrento. In precedenti viaggi il Capitano Buonocore (di questo Andrea Buonocore fu figlio un Filippo Buonocore, notaio e segretario dell’ultimo Feudatario di Vico Equense, il principe Ravaschieri. Di Filippo fu figlio un altro Andrea, capitano, che sposerà nel 1787 Angela Lauro figlia del cap. Gennaro Console dell’Imperatore d’Austria e del Granduca di Toscana nella città di Castellammare di Stabia. Ultimo particolare: nella chiesa di Bonea vi è un calice d’argento,usato per contenere le ostie, che reca la sottoscrizione: donato dal cap. Andrea Buonocore) aveva preso accordi con grossisti del Piano per trasportare dalla Puglia a Cassano e di qui al mercato (di Carotto) partite significative di grano. Nei fatti, tuttavia, quel grano invece fu venduto a Napoli dove Capitan Andrea aveva fatto prima tappa provenendo dalla Puglia.
I commercianti di Carotto avevano convenuto in giudizio innanzi alla Gran Corte della Vicaria il capitano Buonocore perché rispondesse del proprio inadempimento. Questi si era difeso sostenendo che, giunto nel porto di Napoli, la folla tumultuante aveva assalito la nave costringendolo a cedere loro anche quelle partite di carico che si era impegnato a scaricare successivamente a Cassano.
Alla fine i litiganti riuscivano a conciliare stragiudizialmente la lite con i buoni uffici del Notaio Crescenzo Pollio. Questi, recatosi insieme ai rappresentanti dei commercianti, direttamente sul bastimento del Buonocore (in rada nella Baia di Cassano) raccolse la volontà delle parti di comporre la lite. Il Capitano si obbligò con i grossisti del Piano di effettuare altro viaggio in Puglia ed al ritorno di fare sosta in rada a Cassano onde scaricare la parte del carico da destinare al mercato di Carotto e, solo in secondo momento, ripartire per il porto di Napoli per le ulteriori consegne concordate con i grossisti della Capitale.
Il mercato che si teneva a Carotto era, dunque, una sorte di fiera dove era possibile comprare di tutto, dai prodotti della terra agli animali da cortile, dalle stoffe alle spezie, dalla polvere da sparo alle armi ed anche tessuti in seta ed altro ancora. Una piccola ma opportuna digressione: da un atto del Notaio Massa del 1763 risulta che in Bagnulo esistevano alcune filande che lavoravano il baco da seta per trasformarlo in tessuto finito (alcune, di taluni Maresca, piuttosto sviluppate rimasero in attività fino alla seconda metà dell’800) e, anche, una fabbrica artigianale gestita da tale Aniello Guida, che con particolari telai produceva calzette di seta, quelli che gli uomini abitualmente indossavano a vista sotto i pantaloni. Il Guida era talmente bravo e noto in zona che a lui erano indirizzati quei giovani che avessero voglia di impararne l’arte compreso un Francesco Massa. Questi divenne forse anche più bravo del maestro, gli successe nell’attività salvo poi, il 24 agosto del 1771, cederla, con atto per Notar Biagio Massa, al capitano Antonino Cacace ed al di lui padre Baldassarre Cacace che rilevarono telai e maestranze. E’certo che anche le calzette in seta prodotte a Bagnulo venivano commerciate sulla piazza di Carotto.
Queste notizie avvalorano l’idea che lo slargo dove confluivano via S.Margherita, via Casa Rosa e via Casa Lauro (anticamente semplicemente via Lauro), indiscutibilmente meno esteso dell’attuale Piazza Cota, fosse nel ‘600 e nel ‘700 punto di riferimento per attività commerciali e, pure, sede di uffici pubblici. Inoltre appare verosimile che nel XVIII secolo la coltura degli agrumi non fosse, nell’area, ancora preminente ma ve ne fossero altre importanti come, appunto, quella del baco da seta alla quale era connessa la produzione di tessuti pregiati.
Quanto al rione di S. Giovanni (di cui ho diffusamente trattato nel precedente articolo imperniato sulla omonima Cappella) va ricordato come probabilmente già ai primi del 1200 avesse caratteristiche di piccolo centro urbano ben definito. Almeno questo è quanto lascia intendere la nota con cui, nel 1828, il canonico Don Agnello Cota aveva ricostruito il contenuto dell’atto fondativo (del 1326) della Cappella di S. Giovanni (estratto dagli archivi della Curia di Sorrento). Nel corpo dell’atto Don Agnello Cota accennava ad un decreto emesso, a richiesta della famiglia Maresca, dalla Curia di Sorrento già il 21 febbraio 1231 con cui si autorizzavano interventi nell’area di S.Giovanni. Il che, dunque, consolida la tesi che in pieno medioevo S. Giovanni avesse già fisionomia di nucleo urbano formato da una serie di case edificate una accanto all’altra e tutte prospicienti il pubblico viottolo.
I rioni di S. Giovanni, Cassano, Gottola e Bagnulo erano collegati alla vicina Marina di Cassano non già dalle odierne rampe carrabili (realizzate oltre la metà dell’800) bensì da un sentiero che aveva inizio dallo stesso vicoletto di S. Giovanni e, attraversando un fondo che, a fine ‘700, era proprietà della famiglia Massa, raggiungeva l’antico borgo marinaro. Altro accesso esisteva e tuttora esiste ed è costituito dalla stradina pedonale che si sviluppa lungo il Vallone di S. Giuseppe a confine con S. Agnello.
I terreni circostanti il rione di S. Giovanni erano, con buona probabilità, tra XVII e XVIII secolo, proprietà delle varie famiglie Maresca o patrimonio del patronato della omonima Cappella.
Un atto del 30 ottobre 1733 redatto dal Notaio Antonino Arcangelo Massa (in attività nel Piano di Sorrento dal 1720 al 1734) ci consente, indirettamente, di conoscere che dalla stradina proveniente dal rione S. Giovanni si accedeva, attraverso un percorso che si snodava, almeno in parte in galleria e, poi, lungo il costone tufaceo (il tracciato è ben visibile sulla foto ottocentesca della pagina precedente) fino all’arenile dove vi erano i cantieri per la costruzione di bastimenti. Tutt’intorno vari monzeni in parte allocati in grotte ricavate nel tufo. In questi locali generalmente si custodivano attrezzature e materiali necessari alla costruzione, riparazione o armamento dei bastimenti (il che risulta anche da un atto del Notaio Massa del 1775.
Tale capitano Francesco Maresca prelevò stoppa e catrame dal monazeno di Capitan Michele Maresca per calafatare la propria polacca prima del varo). Alcuni di questi monazeni, prossimi all’area di cantiere, originariamente, nel ‘600, di proprietà del capitano Pietro Massa e dei fratelli, il Canonico Don Nicolò Massa ed il Capitano Giovanni Massa, furono ereditati nel 1715 dai nipoti e da questi venduti al Capitano Pietro Antonio Maresca. Questi, destinatario nel 1734 e nel 1737 (il 18 febbraio del 1737) di privilegi per servigi resi a Carlo di Borbone, aveva sposato, nel 1712, la figlia del capitano Giovanni Massa, Caterina.
Gli altri figli (intendo del cap. Giovanni Massa), i capitani Martino, Alessio, Aniello e Antonio (Massa) possedevano ciascuno un bastimento ed erano assidui avventori della Marina di Cassano tanto da comparire, in qualità di testi, in più di un atto notarile ivi stipulato per dirimere vicende relative alla costruzione dei bastimenti o per altre vicende commerciali.
Era quella dei Massa, dal 1735 Cavalieri dell’Ordine di Malta, una delle famiglie più antiche di Carotto compatrona, con i Maresca ed i Cacace, della chiesa di S. Michele.
All’interno di S. Michele i Massa avevano il diretto patronato sulla Cappella di S. Caterina, posta in fondo alla navata destra, eretta per la prima volta nel 1393 (all’interno del precedente edificio religioso romanico sostituito nel 1570 dall’attuale), da tale Pandolfo Massa.
Lo ricorda la targa marmorea apposta all’ingresso della cappella nel 1885 dal Notaio Antonino Maresca (nipote del Capitano Michele Maresca di cui parlerò nel prosieguo). Gli avvenimenti che determinarono l’apposizione della targa sono singolari perché consequenziali ad un processo civile intentato da alcuni Massa, nel 1867,innanzi al Tribunale di Napoli contro la Parrocchia di S. Michele. I vari Massa rivendicavano, in forza del testamento lasciato nel 1393 da Pandolfo, il patronato sulla cappella gentilizia di S.Caterina e, soprattutto, la proprietà del patrimonio collegato. La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 1883, definì la lite riconoscendo ai Massa i diritti sul patrimonio annesso alla cappella e, a tal fine, delegò per la pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta del Regno d’Italia il Notaio Antonino Maresca. Anche quest’ultimo era parte nel giudizio quale discendente, attraverso sua nonna Caterina (Massa), da Pandolfo Massa.
Oltre ai monazeni i Massa possedevano terreni che si estendevano sul sovrastante costone oggi noto come Ripa di Cassano. Nel secolo successivo, nel 1837, proprio l’acquisto da parte di Francesco Ciampa (padre del più noto Francesco Saverio tra i maggiori armatori del Sud Italia nel corso dell’800) di un magazzino semidiruto già proprietà Massa (per l’esattezza di Don Andrea Massa) segnerà l’inizio dell’avventura armatoriale dei Ciampa che, attraverso la figura dell’esponente più noto, Francesco Saverio, saranno capaci di costruire nel XIX secolo una delle maggiori flotte mercantili italiane post unitarie.
Nel ‘600 ed ancor più nel ‘700 Marina di Cassano era il reale centro motore dell’economia del Piano, pullulante di attività, abitualmente frequentata da padroni marittimi e capitani del Piano ma anche della vicina Vico Equense e, persino, di Napoli. Poteva rivelarsi fondamentale possedere un fondaco o un magazzino alla Marina di Cassano anche più che non un palazzo al centro di “Carotto”. Infatti oltre alle famiglie Maresca e Massa vi possedevano case e monazeni un’altra importante stirpe marinara, i Lauro. Dal testamento del 1775 di Don Saverio Lauro risulta che questi fosse proprietario di case e monazeni intorno alla chiesa della Madonna delle Grazie comprese alcune camere poste proprio al di sopra.
Tra il XVII ed il XVIII secolo vi fu un deciso impulso alle attività cantieristiche che, se nei secoli precedenti erano limitate alla costruzione di naviglio più leggero, dalla fine del ‘600 in poi saranno volte al varo di bastimenti di stazza sempre maggiore in grado di affrontare navigazioni prolungate e,in qualche caso, oceaniche. Nella cantieristica erano impegnate centinaia di maestranze tra carpentieri, falegnami, calafati, tessitori di velame, maestri d’ascia e quanti altri avessero competenze utili all’impostazione ed al varo dei bastimenti.
Un’attività che, come puntualizzano alcuni atti notarili, era fiorente da secoli. Da un atto del Notaio Paolo De Ponte del 3 febbraio 1698 si apprende del varo, per conto del Magnifico Don Arcangelo Maresca (Questi potrebbe essere quel giureconsulto vissuto tra 600 e 700 la cui lastra sepolcrale fu eliminata nel corso dei lavori di ristrutturazione della Chiesa di S.Michele nel 1886(??). Solitamente l’appellativo di Magnifico era dato a Notai, Medici e soggetti che rivestivano una qualche carica pubblica nella Universitas o nel Governo della Chiesa di S.Michele) di una tartana della capacità di 2.300 tomoli. Il tomolo era una antica misura di capacità, corrispondente a circa 55 dei nostri decimetri cubi, una tartana di 2.300 tomoli aveva una porta di circa 80-90 tonnellate. Don Arcangelo cedette la maggior parte delle quote di proprietà del bastimento (detti legni) al capitano Lorenzo Astarita che ne assunse, pertanto, il patronaggio e, con esso, il comando. Parte delle quote, in misura minore, furono acquistate dal capitano Andrea Lauro che aveva anticipato circa 400 ducati per la costruzione del bastimento.
Da altro atto del 29 ottobre 1714 si apprende della costruzione, sempre a Cassano, di un pinco della portata di 1.800 tomoli denominato “S. Michele Arcangelo, la SS Annunziata e l’Anime del Purgatorio” per conto del capitano Bartolomeo Maresca (del fu Marc’Antonio) che, però, ne cedeva alcune quote al Dott. Fisico Aniello Murlo (i Murlo erano un’antica famiglia del Piano che ha espresso Governatori della Chiesa di S. Michele, Religiosi e Sindaci e che, fino al 1886, esercitava il patronato su una propria cappella gentilizia all’interno della chiesa di S. Michele). Nell’atto il Capitano Bartolomeo Maresca dichiarava, anche, di aver ricevuto per la costruzione del Pinco un prestito dal Dott. Fisico Antonino Maresca (peraltro fratello di importanti Capitani quali Pietro Antonio, Nicolò ed Ignazio Maresca) ma di averglielo restituito e questi, a sua volta, lo aveva reimpiegato per la costruzione di una tartana.
Si tratta di atti indubbiamente singolari, provano come alle attività marittime nel Piano di Sorrento partecipassero anche soggetti che normalmente avrebbero dovuto occuparsi d’altro quali due medici e un giureconsulto!
Nel corso del ‘700 le imbarcazioni assumono stazza e dimensioni sempre maggiori con costi di costruzione notevolmente superiori a quelli indicati nei due atti del Notaio de Ponte. A fine secolo XVIII una polacca aveva costi non inferiori a 3-3500 ducati. Fu tale il prezzo pagato il 3 febbraio 1776 a Mastro Giosuè De Rosa dal cap. Mattia Lauro per una polacca della capacità di 5.000-5.500 tomoli. In qualche caso, per bastimenti con capacità di carico superiore a 7-8000 tomoli, i costi non furono inferiori a 4-5.000 ducati. Il 19 aprile 1783 il Maestro D’Ascia Nicola Castellano, con atto del Notaio Massa, si impegnò a costruire per conto dei capitani Tommaso e Baldassarre Maresca nonché del cap. Nicola De Rosa una polacca lunga in carena 70 palmi ed il costo fu concordato in 4.923 ducati. Somme notevolissime se paragonate al valore stimato per un palazzo di importanti dimensioni nel centro di Carotto. Nel 1756 il palazzo dei Maresca (quelli cosiddetti Mangiagalline) in via Bagnulo, certamente diverso dall’odierno ma comunque con decine di stanze compreso un salone delle feste, fu valutato da due tecnici incaricati della stima (dagli eredi del Dott. Fisico Antonino Andrea Maresca che stavano procedendo alla divisione dei suoi beni) del valore di poco meno di 2.000 ducati.
A Cassano, comunque, si varavano tartane di stazza generalmente superiore a quelle costruite in altri analoghi cantieri del Regno e, poi, pinchi, polacche e barche di dimensioni più ridotte come le feluche normalmente adibite al traffico interno al Golfo. Per vero devo segnalare che da un contratto del Notaio Biagio Massa del 22 agosto 1784 affiora che, in quell’anno, il capitano Giosuè Iaccarino fu Silvestro, insieme a tali Bartolomeo e Nicola Iaccarino nonché ad un Michele Maresca fu Antonio, commissionarono al Maestro d’ascia Raffaele Castellano la costruzione di una feluca alquanto notevole nelle dimensioni, lunga in carena ben 51 palmi, da destinare ai collegamenti con il porto di Napoli.
Le feluche assicuravano regolari collegamenti con il porto di Napoli. Bisogna tener conto che all’epoca tartane, polacche e pinchi non potevano attraccare a Cassano perché mancava il molo. La mercanzia diretta al mercato di Carotto veniva sbarcata con l’ausilio di barconi che facevano la spola tra i bastimenti all’ancora e l’arenile. Con lo stesso sistema i bastimenti spesso facevano alcuni rifornimenti prima di intraprendere un viaggio. Le navi di Cassano avevano come porti di riferimento Napoli e, in qualche caso, Castellmmare di Stabia.
E, quindi, capitani e marinai, dopo aver attraccato la nave alle banchine del porto di Napoli, raggiungevano il Piano di Sorrento unicamente con il servizio di trasporto passeggeri assicurato dalle feluche (un servizio che fin dal 600 era assicurato, tra gli altri, anche dagli Aponte antenati del patron della MSC Gianluigi Aponte).
Nel registro dei deceduti custodito a S. Michele ho rinvenuto il verbale di un naufragio di una feluca sulla punta di Scutolo avvenuto nel 1660. Il Capitano Antonino Maresca, insieme ad altri 5 passeggeri (presumibilmente marinai del suo bastimento), in quel drammatico 13 novembre del 1660, si era imbarcato al porto di Napoli su una feluca diretta a Cassano. Le cattive condizioni del mare provocarono il naufragio dell’imbarcazione sul promontorio roccioso di Scutolo e la morte di tutti i passeggeri. Solo dopo alcuni giorni ne fu ritrovato, intatto, il corpo sulla spiaggia di Alimuri e dopo essere stato consegnato ai genitori (ne era padre Giovan Battista) ed alla nonna Portia De Ponte (che aveva invocato S. Lucia a che se ne ritrovasse almeno il corpo) fu seppellito all’interno della Chiesa di S. Michele nella Cappella di S. Eustacchio patronato della famiglia Maresca (Mangiagalline).
Anche un episodio terribile come questo conferma dei traffici che si svolgevano alla Marina di Cassano a quel tempo quotidianamente collegata con la Capitale del Vicereame da un servizio di feluche che attraccava in un’area oggi meglio nota come Porta di Massa posta di fronte ai resti delle antiche fortificazione dinanzi all’antica Piazza del Mercato (la stessa dove si eseguirono nel 1799 numerose delle condanne a morte di patrioti della Repubblica Partenopea).
Nel quartiere che nei tempi antichi si sviluppava intorno alla marina (in gran parte distrutto dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale) nel ‘600 e nel ‘700 vi erano le sedi degli antichi banchi Napoletani frequentati da capitani ed armatori del Piano di Sorrento che normalmente vi aprivano conti attraverso i quali effettuavano transazioni commerciali e, più generalmente, i pagamenti.
Gli stessi, non raramente, possedevano alloggi nei pressi della Marina o, comunque, nei quartieri più vicini, dove erano soliti fermarsi quando giungevano in città per meglio seguire i propri affari e le attività marittime nelle quali erano impegnati i bastimenti di loro proprietà. Del resto è sufficiente dare uno sguardo ad alcuni contratti di nolo dei bastimenti dei Lauro, dei Maresca, dei Cacace, dei Cafiero e via dicendo per rendersi conto che il grosso dei noli, almeno fino ad oltre la metà del 700, i capitani del Piano lo concordassero con grossisti napoletani (Scherillo, Ruggiero, Maney, Boragine, Berio, Ventapane ecc…). Non pochi viaggi erano, poi, al servizio dell’Eletto del Popolo, l’autorità alla quale era demandato l’approvvigionamento della capitale. Alcuni capitani come quelli della famiglia Maresca (Mangiagalline) o i Lauro (i capitani Costantino Lauro e Michele Maresca, cugini tra loro, avevano residenza nella città di Napoli) mantenevano forti legami con l’Amministrazione Pubblica e, per essa, con l’Eletto del Popolo per il quale eseguivano numerosi viaggi dalla Puglia e dal Molise trasportando da porti come Vasto, Barletta, Gallipoli e Trani derrate di grano o anche olio per la Capitale.
Un contratto del 1698, stipulato dal Notaio Paolo De Ponte, fa emerge la natura delle attività di quel ramo della famiglia Maresca che nel 1730 riceverà dall’Amministrazione vicereale Austriaca il titolo di Duca e, nel 1735, acquisirà il feudo di Serracapriola. All’epoca questo ramo dei Maresca era intento a commerciare grossi quantitativi di olio e vino (in parte venduti anche nella città di Roma) e, infatti, con contratto del 3 febbraio 1698, Ludovico Maresca, padre del futuro Duca Nicola e nonno del più celebre Duca Antonino (ambasciatore di Ferdinando IV alla Corte della zarina Caterina la Grande) si impegnò a noleggiare un bastimento del Piano di Sorrento per trasportare da Gallipoli a Napoli, per conto del commerciante Valerio de Martino, una grossa partita di olio accuratamente stivato in botti. Un contratto di fornitura particolarmente remunerativo di circa 15-16.000 ducati.
Ma non necessariamente grano ed olio finivano a Napoli, in molti casi i bastimenti di Cassano raggiungevano Livorno, Genova e anche Marsiglia, Cartagena, Malaga, Siviglia o altri porti mediterranei o, ancora, porti atlantici quali Cadice, Lisbona e La Corugna (Nel 1977 dai registri di capitaneria risulta un viaggio del capitano Michele Maresca al comando della polacca “Madonna delle Grazie”, varata a Cassano, con circa 25 uomini di equipaggio, verso Cartagena, Malaga e, poi, Lisbona e La Corugna). Il rifornimento di grano assicurato da tartane, pinchi e polacche costruite a Cassano e di proprietà di capitani che, in pratica, si erano formati in quella Marina, era determinante per l’approvvigionamento della Capitale.
A tal proposito ritengo stimolante raccontarvi quanto avvenne nel 1764 allorquando si verificò nel Regno una grave carestia e la produzione granaria di Puglia e Molise non fu sufficiente a coprire le richieste di approvvigionamento di Napoli e dintorni. Regnava Ferdinando IV di cui era ministro il Marchese Bernardo Tanucci già Ministro di Carlo e da questi (allorchè nel 1759 andò in Spagna divenendone Re con il titolo di Carlo III) lasciato nel governo del Regno proprio al fine di assicurarsene, anche dalla Spagna, il controllo. La scarsità di grano nelle provincie adriatiche del reame mise in allarme il governo di Sua Maesta borbonica tanto che Tanucci scrisse direttamente al Console di Napoli nella città di Trieste, Don Giuseppe Hensel de Gramont, intimandogli di comprare per conto del governo anche partite di grano proveniente da Croazia, Stiria o Ungheria. Il Console diede assicurazioni al Ministro Segretario di Stato di aver provveduto e chiese ed ottenne dal proprio governo le provvidenze per gli acquisti ma il grano non arrivò nella capitale e ciò provocò un’inchiesta a carico del Console da parte del Procuratore del Re Don Giuseppe Guidotti. Questi rinfacciò all’Hensel De Gramont di aver assicurato la partenza di vari bastimenti carichi di grano dal porto di Trieste per Napoli ma senza che alcuno di questi bastimenti fosse giunto a destinazione.
In un punto dell’atto di accusa il Procuratore del Re cita una corrispondenza del mese di febbraio del 1764 tra l’Hensel ed il Marchese Tanucci. Il Console aveva scritto al Tanucci: “Così se volete avere che il vostro capitano Michele Maresca a me carissimo io posso servirvi e dargli il carico da voi ricercato……… e vi prego di far capitale di me che mi troverete sempre disposto ai vostri comandi e forse a maggior vantaggio di quel che avete finora sperimentato dal vostro corrispondente”.
Ovviamente non era vero, il capitano Michele Maresca non ne sapeva nulla ed il Procuratore del Re si indusse a procedere nei confronti del Console e dei rivenditori di grano triestini e, in particolare, del negoziante ebreo Vitalevi ritenuto complice della truffa. La corrispondenza è di particolare rilievo storico perché prova come alcuni capitani di Cassano, in questo caso il Maresca, avessero rapporti stretti con personaggi del calibro di Tanucci che del Regno era Primo Ministro e Segretario di Stato e come quei capitani fossero noti anche su piazze commerciali importanti come Trieste. Non a caso il Console non trovò di meglio per rassicurare Tanucci che garantirgli di essersi rivolto al “vostro Capitano Michele Maresca a me carissimo”. Parole che rimarcano, appunto, la familiarità dei capitani di Cassano con le alte sfere del governo borbonico. Per ironia della sorte da verifiche che ho eseguito sul registro del porto di Napoli del 1764 emerge che realmente, in quell’anno, il capitano Maresca era con il suo bastimento a Trieste e vi era giunto scortato, insieme ad altri due bastimenti di cui uno del capitano Domenico Cafiero ed un altro greco, dalla flottiglia da guerra di capitan Giuseppe Martinez.
Dal secondo quarto del XVIII secolo ho trovato documenti che testimoniano di viaggi anche oltre lo stretto di Gibilterra seppur, con tutta probabilità, con carico diverso. Nel 1749 una polacca costruita alla Marina di Cassano, al comando del Capitano Francesco Maresca (figlio di Ignazio e nipote di Giovan Camillo del ceppo soprannominato Mangiagalline, in pratica un cugino di Capitan Michele), navigò dalla Puglia a Londra e da qui fino alle colonie inglesi del Nord America in particolare si recò nella Carolina e negli anni 1762 e 1763 altra polacca, al comando del Capitano Antonio Cacace, effettuò numerosi viaggi dalla Puglia, dove si riforniva di olio in botti, necessario per l’illuminazione pubblica, per Londra e Nord Europa fermandosi, al ritorno, con prodotti nordeuropei a Salerno, all’epoca sede di una importante fiera. Il viaggio in America del 1749 del Capitano Francesco Maresca è il primo del genere di cui si abbia notizia ufficiale, effettuato da un bastimento del Regno di Napoli. Il che non significa che non possano esserci stati precedenti analoghe traversate, più semplicemente che si tratta del primo di cui si ha una qualche traccia.
Si ha notizia di altro viaggio in quel periodo verso le Americhe e per l’esattezza verso la Martinica di una polacca procidana al comando del Capitano Michele Di Costanzo che approdò appunto nelle Antille Francesi, ma successivamente, nel 1756.
E, quindi, i bastimenti costruiti a Cassano (come del resto quelli costruiti all’Alimuri), erano costruzioni navali di tutto rispetto in grado di affrontare navigazioni complesse e difficili. Pinchi, tartane e polacche, solitamente varate sulla spiaggia di Alimuri o alla Marina di Cassano, erano opera di abilissimi maestri d’ascia di cui, attraverso gli atti notarili, è possibile conoscere i nominativi di quelli maggiormente attivi.
Nella costruzione primeggiava, almeno nel corso del XVIII secolo, la famiglia De Rosa o Di Rosa di cui fu celebre Capo Maestro d’Ascia Giovan Battista, egualmente validi maestri d’ascia furono il fratello di questi Francesco e, successivamente, il figlio di quest’ultimo Giosuè. Ma abili capi maestri d’ascia furono anche Gabriele Iaccarino, Nicola e Giuseppe Castellano, Raffaele Castellano, forse anche un Salvatore (?) De Maio ed altri ancora. Nel cantiere di Alimuri primeggiavano già nel XVIII secolo i Mauro. Da un atto del Notaio Biagio Massa del 14.10.1780 risulta che il capo Maestro D’Ascia Agostino Mauro avesse costruito sugli scali di Alimuri una polacca della capacità di carico di 6.000 tomoli per conto del capitano Salvatore Cafiero (dovrebbe trattarsi del capostipite di quel Comandante Salvatore Cafiero che negli anni 50 acquisì da Angelo Scinicariello la proprietà di una flotta già in attività dal 1880).
Una piccola quota di questo bastimento varato all’Alimuri fu acquistato da capitan Michele Maresca “Mangiagalline”). Della famiglia De Rosa alcuni furono notevoli ed apprezzati capitani ed armatori ed in particolare nel corso del 700 si distinsero i capitani Nicolò ed Antonino (De Rosa) che armarono pinchi e tartane tutte varate, manco a dirlo, alla marina di Cassano ad opera del Maestro d’Ascia Giovan Battista De Rosa. Il capitano Antonino fu pure notevole uomo d’affari come chiarirò nel prosieguo di questo racconto.
Maestri d’Ascia e Capitani di questa famiglia ebbero dimora in via Casa Rosa, alle spalle delle proprietà della famiglia Lauro poste sull’attuale via Casa Lauro. Di alcuni dei fabbricati abitati dai De Rosa è possibile tuttora apprezzare le essenziali linee settecentesche. Di particolare pregio appare questo portale in pietra pipernoide del vano luce sovrastante il magazzino al civico di via Casa Rosa (il giorno che i nostri Comuni, invece di perdere tempo a finanziare feste e festicciole inutili, impiegheranno qualche denaro a censire portali, fregi antichi e quanto ci è stato tramandato del paese antico sarà sempre troppo tardi!).
I De Rosa furono in modo particolare attivi intorno alla metà del 700. Il 6 gennaio 1761 con atto per Notar Biagio Massa il Capo maestro d’ascia Giovan Battista De Rosa si impegnava con il capitano Alessio Cafiero ad allungare la carenza della sua tartana di 4 palmi fino a portarla ad una lunghezza in carena di 65 palmi. Vi propongo di seguito copia della nota sottoscritta di pugno dal capitan Alessio Cafiero e da Mastro Giovan Battista de Rosa.
Mi sembra opportuno a questo punto, seppur fugacemente, dare qualche indicazione sulla figura di capitan Alessio che dei capitani Nicolò ed Antonino De Rosa aveva sposato la sorella Andriana. Fu, senza dubbio alcuno, insieme a Costantino Lauro (figlio di Capitan Giuseppe e Grazia Maresca), Michele Maresca (Mangiagalline, figlio di capitan Piero Antonio e Caterina Massa), Saverio Lauro (figlio di capitan Giovan Battista e di Caterina Maresca), il capitano Antonio Cacace ed altri ancora, uno dei personaggi più in vista del Piano di Sorrento intorno al terzo quarto del XVIII secolo. Con la gestione di diverse tartane e, a partire dal 1760, di qualche polacca (di cui affidava il comando ai figli Giuseppe, Nicola e Vincenzo. E’ singolare l’atto del Notaio Massa del 13 luglio 1775 con cui Alessio affida al figlio Nicola il comando della Tartana “S. Francesco di Paola, Santa Maria e San Giuseppe “conferendogli piena facoltà di stipulare noli e quant’altro) costituì un notevole patrimonio personale raggiungendo una prominente posizione sociale che lo indusse, con atto per Notar Biagio Massa del 3 febbraio 1770, ad acquistare dalla Sig.ra Teresa Comentano Cota il diritto di interro, per sé ed i propri discendenti, nella cappella della Madonna del Soccorso all’interno della Chiesa di S.Michele, patronato della famiglia Cota. Ormai Capitan Alessio era entrato a pieno titolo in quella cupola oligarchica di famiglie (di capitani ed armatori) del Piano di Sorrento che amministravano la Insigne Real Collegiata di S. Michele esercitando, all’interno dell’edificio religioso, il patronato su una della cappelle gentilizie ivi esistenti. Successivamente acquisterà numerose proprietà e tra queste dal patrizio sorrentino Antonino Vulcano nel terziere di Meta, a Ponte Maggiore, anche un grande fondo appartenente al patronato annesso alla cappella gentilizia dei Vulcano nella cattedrale di Sorrento.
Questo interessante personaggio era in grado di immettersi in attività commerciali ed imprenditoriali anche non direttamente connesse con l’attività marittima. Le sue capacità marinaresche erano indiscusse negli ambienti della Marina di Cassano.
Nel 1772, come risulta da atto per notar Massa del 26 gennaio 1773, Capitan Alessio entra in società con i capitani Costantino, Antonino e Mariano Lauro, nonché con i Capitani Salvatore, Michele e Giosuè Cacace, con il Capitano Antonino De Rosa, con i sig.ri Ottavio Balsamo e Biagio Starita per gestire la gabella della farina del Piano e della Citta di Sorrento. Tutti i soci che avevano costituito un capitale sociale di 35.000 ducati, una somma realmente considerevole per l’epoca, certamente non casualmente, nominarono Alessio cassiere della società affidando al Cap. Salvatore Cacace il compito di stilare il bilancio annuale. Ad ogni socio venne, comunque, attribuito un preciso compito. La società, poi, si affidò per la domiciliazione e l’assistenza allo studio dell’avvocato Tommaso di Costanzo di Napoli ed a quello dell’avv.Giuseppe Paolo De Ponte (della antica ed illustre famiglia De Ponte del Piano di Sorrento) definito esperto in materia societaria. Sembra quasi un negozio dei nostri giorni. Ma veniamo nuovamente ai de Rosa.
Il 28 giugno 1761 i Capitani Nicola De Rosa, per 13 legni, ed Antonino De Rosa per 2 legni (la proprietà dei bastimenti era divisa in quote detti legni) concordarono con il Maestro d’Ascia Giovan Battista De Rosa la costruzione di un pinco lungo in carena 60 palmi.
Nel 1763, da altro atto del Notaio Biagio Massa (22 ottobre 1763), emerge che il Capitano Alessio Cafiero pattuì con Giovan Battista De Rosa la costruzione di una tartana lunga in carena 60 palmi, larga 25 palmi, alta a poppa palmi 18 ec…. ben specificando che il bastimento dovesse avere le stesse caratteristiche costruttive di quello in precedenza costruito e varato per capitan Michele Cafiero.
E’ probaile che la Tartana ordinata a mastro Giovan Battista fosse simile
Questo contratto è tuttavia insolito, il committente, ovvero il CapitanoCafiero, accettò su di sé l’onere di provvedere all’acquisto ed alla fornitura del legname occorrente alla costruzione della nave nonché al suo trasporto fino al cantiere del De Rosa. Un patto che plausibilmente gli consentiva di risparmiare sul costo finale del bastimento e che Mastro Giovan Battista non ebbe difficoltà alcuna ad accogliere dati i rapporti di parentela che lo legavano al committente. Significativamente il contratto è sottoscritto anche dai capitani Nicola ed Antonino De Rosa che, in tal modo, offrivano garanzia sul rispetto degli accordi accettati.
Quanto fossero stretti i rapporti tra i Cafiero ed i De Rosa lo prova un ulteriore episodio descritto nell’atto del Notaio Biagio Massa dell’agosto precedente (1763). In pratica un testimoniale di avaria marittima subito da una tartana di proprietà di capitan Alessio ma al comando del di lui figlio Vincenzo mentre era in navigazione nel Golfo di Taranto. Questi testimoniali resi innanzi al Notaio e sottoscritti da tre membri dell’equipaggio, quasi sempre dal timoniere, dallo scrivano e dal nostromo, erano atti indispensabili per presentare denunzia di avaria al Consolato del Mare (una giurisdizione speciale del regno) e, poi, conseguire il risarcimento dei danni dalla Real Compagnia delle Assicurazioni Marittime (istituto voluto da Carlo di Borbone nel 1751). Innanzi al Notaio i tre membri dell’equipaggio testimoniavano delle modalità con cui il bastimento aveva subito l’avaria generalmente originata da cattive condizioni del mare o da altri accidenti naturali, ma non di rado, anche da atti di pirateria.
E fu proprio quanto accadde in quell’estate del 1763 a capitan Vincenzo Cafiero a influenzare Capitan Alessio in alcune scelte di cui racconterò di qui a poco. Mentre era in navigazione nel golfo di Taranto, fu assalito da due bastimenti corsari del Nord Africa (uno sciabecco ed una galeotta). Nonostante nello scontro a fuoco un colpo di cannone delle unità corsare avesse reciso di netto la parte superiore del trinchetto del bastimento di capitan Vincenzo questi con coraggio ordinava ai marinai, pur sotto incessanti tiri di artiglieria delle due unità corsare, di montare subitamente altro albero con nuove vele. Il che consentì loro di aumentare la velocità e sfuggire ad una cattura che avrebbe comportato di certo la riduzione in schiavitù per l’intero equipaggio. La tartana di lì a dieci giorni riuscì a raggiungere, seppur parzialmente danneggiata dai colpi inferti dalle navi corsare, la Marina di Cassano. A bordo era imbarcato, con funzioni di scrivano, un Melchiorre De Rosa di certo nipote o figlio di Mastro Giovan Battista.
Un episodio che, comprensibilmente, restò impresso nella mente di Capitan Alessio tanto da indurlo ad inserire nel testamento che il giorno 11 gennaio 1770 sottoscrisse innanzi al Notaio Biagio Massa una singolare postilla. Nel nominare i figli maschi Nicola, Vincenzo e Giuseppe suoi eredi universali, raccomandò loro di creare un fondo cassa comune (circa 200 ducati a testa) dal quale attingere per eventualmente pagare il riscatto di chiunque di essi fosse stato catturato dai corsari turchi. Una preoccupazione giustificata dai tempi e dai pericoli che la pirateria comportava per i traffici marittimi nel Mediterraneo ed, in questo caso, dettata dal ricordo di quanto era occorso al figlio appena 7 anni prima, nel 1763.
Chiunque, a quei tempi, intraprendesse un viaggio in mare era ben conscio che il suo bastimento poteva essere assalito dai Pirati, in qualche caso, addirittura, anche poco fuori dal Golfo di Napoli.
Analogo infortunio sarebbe capitato, nel 1772, nelle acque dello stretto di Messina, ad una polacca del Cap. Michele Maresca che, nell’occasione riuscì ad assestare qualche buon colpo sui bastimenti corsari e, comunque, a prendere velocemente il largo allontanandosi dal passaggio praticato da qualsiasi bastimento provenisse dall’Adriatico. I bastimenti del Piano, per prammatica reale del 1751, erano tutti armati con almeno 4 cannoni ed a bordo avevano comunque un’armeria idonea alla difesa. Circostanza che emerge con chiarezza dal testamento del Capitano Giovan Battista Lauro del 1736 che lasciò in eredità ai figli, oltre a beni mobili ed immobili, bastimenti e quant’altro, anche 12 cannoni di bordo, sciabole d’arrembaggio, pistole e fucili custoditi in quei magazzini che possedeva intorno alla chiesa della Madonna delle Grazie e che saranno ereditati da suo figlio Don Saverio ufficiale di dogana.
Bisogna immaginare che i capitani del Piano di Sorrento fossero uomini pronti a qualsiasi evenienza, abili nell’arte del navigare ma, al momento opportuno, in grado di usare le armi per difendere se stessi ed i propri interessi.
E, quindi, di certo adusi ad usare l’artiglieri di bordo e le armi individuali come sciabole, pistole e così via. La pirateria esercitata dai cosiddetti Barbareschi, che avevano i loro covi in Nord Africa e principalmente nei porti di Algeri, Tunisi e Tripoli, era un problema serio per i traffici mercantili del Regno e, dunque, per i bastimenti di Cassano. Con il termine “Barbareschi”, da Berberia o terra dei Berberi, erano indicati tutti quei pirati che si annidavano nel Nord Africa anche se non tutti erano originari dei paesi rivieraschi dell’altra sponda del Mediterraneo. Gli equipaggi delle navi corsare oltre a nordafricani erano formati da turchi, albanesi, greci, montenegrini ed anche europei come francesi, spagnoli, olandesi ed inglesi. Tutti agivano muniti di patente di corsa rilasciata dalle autorità del Nord Africa a ciò autorizzate dal Sultano di Costantinopoli.
Non appena insediato Carlo, conscio del pericolo per i traffici mercantili del Regno, equipaggiò una piccola squadra navale che, al comando di Giuseppe Martinez, detto capitan Peppe (proveniva dalla città di Siviglia da una nobile famiglia, i Martinez, di cui era il figlio cadetto), contrastò efficacemente le incursioni corsare che cessarono, però, del tutto solo con l’occupazione, nel 1830, dell’Algeria da parte della Francia.
Capitan Peppe, con sciabecchi armati, conseguì buoni risultati nella lotta che il Regno intraprese per contrastare la pirateria nordafricana. In più di una circostanza riuscì a catturare il naviglio corsaro prendendone prigionieri i membri dell’equipaggio che, a loro volta schiavizzati, furono utilizzati nei lavori della costruzione della Reggia di Caserta. Di tanto in tanto i mercantili napoletani erano costretti a viaggiare in convoglio con la scorta di Capitan Martinez, ed è quanto si verificò, come ho anticipato poc’anzi, nel 1764 quando partì da Napoli un convoglio con tre mercantili, di cui due regnicoli ed uno della Sublime Porta (Impero Ottomano), comandato da un capitano greco. Dei due bastimenti napoletani, entrambi del Piano di Sorrento, uno era comandato dal Capitan Michele Maresca e l’altro da capitan Domenico Cafiero. Indubitabilmente esponenti di importanti stirpi marinare della costiera.
Per meglio comprendere quale fosse la sorte di chi veniva catturato dai pirati magrebini vi propongo la lettura di un verbale stipulato nel 1795 davanti al Console Generale Spagnolo di Algeri. In quell’anno o nel precedente fu catturato dai corsari del Nord Africa di stanza ad Algeri, su un bastimento del Piano di Sorrento dell’armatore Michele Maresca, un marinaio, tale Crescenzo Esposito, coniugato con Diana De Rosa (dovrebbe essere sempre della storica famiglia di maestri d’ascia di Cassano, probabilmente una figlia o nipote di Mastro Giovan Battista). Quest’ultima chiese all’armatore di intercedere per ottenere la liberazione del marito, ma la cosa si rivelò tutt’altro che semplice perché il Regno di Napoli non aveva rappresentanza diplomatica presso il Bey di Algeri che a sua volta dipendeva dal Gran Sultano di Costantinopoli e, dunque, non c’era altro modo che affidarsi, dati gli ottimi rapporti tra i due reami entrambi retti dai Borboni, alla Spagna che aveva in Algeri un proprio Console Generale. A questo punto fu inviato ad Algeri, con la somma occorrente per il riscatto, duecento ducati d’argento, il capitano Giuseppe Monteverdi, toscano, verosimilmente dimorante nello Stato dei Presidi. Una piccola entità statale formata da alcune piazzeforti toscane quali Orbetello, Porto Ercole, Porto S. Stefano, dal promontorio dell’Argentario, Ansedonia e più tardi anche da Porto Longone all’epoca amministrato dal Re di Napoli che lo aveva ereditato dalla Spagna con il famoso trattato di Utrecht (del 1713) che aveva messo fine alla guerra di successione spagnola.
Del conferimento dell’incarico il Console Spagnolo redasse verbale sottoscritto tra gli altri dallo stesso Monteverdi e dal Cancelliere Don Felix Claveria. E’ un documento avvincente e mostra come non fosse affatto infrequente che marinai del Piano venissero catturati dai corsari magrebini e tradotti ad Algeri,Tunisi o Tripoli per poi restarvi un certo tempo fino a che non veniva pagato il riscatto. E lascio immaginare che cosa poteva essere la prigionia in quelle carceri.
La pirateria non diede tregua ai bastimenti napoletani, come ho già detto, fino ai primi decenni dell’800 ed è proprio del 1800 il testamento con cui il Dott. Fisico Pietro Lauro (della nota famiglia di capitani ed armatori aventi la dimora in via del Lauro oggi via Casa Lauro) disponeva dei suoi beni in favore di suo nipote il Dott. Fisico Domenico Lauro. Il Dott. Pietro viveva a Napoli anche se aveva casa a Carotto, in un palazzo attaccato alla Cappella della Libera in S. Margherita. E sempre a riprova che all’attività marittima nel Piano di Sorrento si dedicava anche chi non era direttamente impegnato nella navigazione questo medico aveva gestito, per oltre 20 anni, a partire dal 1775, con un tal Presta, un fondaco a Gallipoli dove veniva stivato il grano poi imbarcato sui bastimenti di Cassano. Nel descrivere i beni lasciati in eredità al nipote Pietro Lauro menziona anche di una polacca costruita a Cassano che, però, lui stesso definisce in quasi totale disarmo perché semidistrutta da un assalto dei corsari turchi nel 1799.
Circostanza che conferma come il pericolo della pirateria sussistesse fino ai primi del XIX secolo. Ma ritorniamo nuovamente all’attività cantieristica per la quale Marina di Cassano andava giustamente famosa. Di sicuro interesse ,anche per i suoi risvolti giuridici, appare l’atto stipulato dal Notaio Biagio Massa in data 11 settembre 1763, che descrive dei contrasti sorti sulla buona esecuzione dei lavori di costruzione di una polacca tra il committente, il capitano Antonino Maresca di Tommaso (credo possa trattarsi di un membro di quel ramo della famiglia Maresca detto del “Grancane” imparentato sia con l’altro, quello dei Duchi di Serracapriola sia con quello soprannominato “Mangiagalline”. Questa famiglia deve il soprannome alla circostanza di aver noleggiato, durante la guerra di Crimea del 1856, bastimenti al Sultano di Costantinopoli e ,dunque, al Gran Kan) ed i maestri Giovan Battista De Rosa, Giosuè De Rosa e Gabriele Iaccarino.
Capitan Antonino aveva stabilito con Mastro Giovan Battista di acquistare per suo conto tutto il legname occorrente alla costruzione della nave ed, all’uopo, si era rivolto al grossista di legnami napoletano Giuseppe Maresca (dal cognome è probabile se non certo che fosse però anche lui del Piano di Sorrento).
I Capi Maestri D’Ascia Giovan Battista De Rosa, Giosuè De Rosa e Gabriele Iaccarino, però, in fase di montaggio del fasciame, si avvidero che il legname era di scarsa o mediocre qualità ed allora, per evitare future liti giudiziarie o per precostituirsi una prova della loro non responsabilità, convocarono in cantiere, alla Marina di Cassano, alla presenza del Notaio Biagio Massa che preparò il verbale della riunione, il committente, capitano Antonino Maresca, il venditore Giuseppe Maresca ed una commissione di esperti formata dai capitani Nicola ed Antonino De Rosa nonché dal Capitano Giovan Battista Paturzo. I tre capitani congiuntamente confermarono quanto paventato dai Mastri d’Ascia De Rosa e Iaccarino e cioè che il legname non fosse idoneo all’uso. Del loro giudizio tecnico il Notaio ne fece verbale. In buona sostanza appare questo procedimento, sia pur davanti ad un Notaio e non davanti ad un Giudice come sarebbe avvenuto ai nostri giorni, una forma atipica di accertamento tecnico preventivo eventualmente fruibile, poi, nel caso una delle parti avesse inteso promuovere giudizio di risarcimento danni, come prova innanzi alla Gran Corte della Vicaria.
In realtà le parti o chi di essa aveva maggior interesse, attraverso il giudizio tecnico formulato dai tre esperti, si precostituiva una prova di cui poter fruire in un ipotizzabile futuro giudizio.
Analoga o, quantomeno simile, è la vicenda che affiora da un altro atto notarile del 26 agosto 1764 stipulato innanzi allo stesso Notaio Biagio Maresca. Il Capitano Michele Maresca di Salvatore aveva commissionato al Capo Maestro d’ascia Giovan Battista De Rosa ed ai suoi collaboratori, il fratello Francesco ed il figlio di questi Giosuè, di costruire una tartana con l’ulteriore incombenza di dover procurare loro il legname necessario.
Il che puntualmente faceva il nostro Mastro Giovan Battista che acquistava le tavole in parte da un rivenditore di C/mmare di Stabia, tale Gennaro Longobardo, ed in parte provvedendo a far tagliare dei pini sul fondo di Don Carlo Massa (in località Legittimo) trasformati, poi, in tavole nella segheria di tale Gioacchino Veniero. In seguito, però, allorquando Capitan Michele si recava in cantiere a Cassano per constatare lo stato dei lavori, si avvedeva che alcune tavole del fasciame non apparivano di buona qualità e contestava il vizio ai costruttori.
Per evitare la lite giudiziaria innanzi alla Gran Corte della Vicaria (in pratica l’antica sede dei Tribunali in Napoli in Castelcapuano in attività fino a poco meno di 15 anni fa) tutti gli interessati concordavano di ricorrere ad una procedura di tipo arbitrale. Ciascuna di esse nominava un proprio esperto, Mastro Giovan Battista si faceva assistere da altro noto maestro d’ascia, Mastro Gabriele Iaccarino, il Capitano Maresca dal Maestro d’ascia Nicola Castellano. I due esperti ebbero mandato dal costruttore e dall’armatore di periziare il fasciame al fine di verificarne lo stato e quantificare l’eventuale danno. La riunione si svolse sul cantiere, alla Marina di Cassano, alla presenza del Notaio Biagio Massa che provvide a redigerne verbale. I periti concordarono che il capitano Maresca avesse, almeno in parte, ragione e Mastro Giovan Battista, nel prenderne atto si obbligava, insieme al fratello Francesco, a restituirgli circa 204 ducati del prezzo pattuito per la costruzione della polacca.
Ma il cantiere di Cassano non conosceva soste ed ai fratelli Giovan Battista e Francesco De Rosa in attività dagli anni 40 del 700 subentra in qualità di capo Maestro d’ascia, nell’ultimo quarto del secolo, il figlio di quest’ultimo, Giosuè De Rosa.
Ed a lui tocca, nel 1786 , l’incombenza di dover costruire una nuova polacca per capitan Saverio Maresca di Carl’Antonio in sostituzione di una precedente andata in disarmo. Questi nel mese di giugno di quell’anno ottenne dal capitano Michele Maresca (cosidetto Mangiagalline, uno dei più influenti capitani del Piano. Dismessi intorno al 1785 i panni del marinaio diventerà un banchiere e sarà nominato nel 1799 Tesoriere Generale del più importante Banco Napoletano, per l’appunto il S.Giacomo e Vittoria), mercè trasferimento di fede di credito tratta sul Banco S.Giacomo e Vittoria, un prestito di duecento ducati che, a sua volta, consegnò a suo figlio, il capitano Saverio Maresca. Era quella la somma chiesta da Mastro Gesuè de Rosa in acconto per la costruzione della nuova polacca, della portata di 6.000 tomoli di grano, denominata “Immacolata Concezione e S. Giuseppe”. Capitan Saverio non possedeva, tuttavia, l’intera somma, circa 4.400 ducati, occorrente per la costruzione del bastimento e così ne cedette quote di proprietà, legni, al grossista napoletano Francesco Saverio Maney che, in cambio, si impegnò a fornirgli il legname necessario alla costruzione compreso l’albero di maestra ordinato a Livorno.
Il Maney accordò a Capitan Saverio , in quanto maggior caratista , la facoltà di noleggiare la nave a chicchessia salvo a ripartire poi gli utili in rapporto alle rispettive quote di partecipazione sulla proprietà del bastimento. Pose,tuttavia, un codicillo e cioè chiese di poterne fruire per propri noli allorquando il bastimento si trovava già ancorato nel porto a Napoli o in quello di Castellammare di Stabia oppure era in rada a Cassano .
Altre quote capitan Saverio le riconobbe, con atto per notar Biagio Massa del 6 luglio 1786, ai sig.ri Michele Astarita, ai fratelli Melchiorre, Gaspare e Vincenzo Maresca fu Costantino nonché a Andrea Guida in sostituzione di quelle che essi già possedevano, in egual proporzione, sulla vecchia polacca di esso capitan Saverio andata in disarmo. Di particolare interesse la nota delle spese allegata al contratto stipulato con il Maney perché appaiono analiticamente menzionate tutte le somme spese e non solo quelle strettamente occorrenti per la costruzione della polacca ma anche quelle cosiddette come le tasse da pagarsi alla dogana di Castellammare di Stabia ed a quella del Piano posta nella piazza di Carotto ( e così sappiamo che in quella piazza oltre ad un posto di gendarmeria vi erano altri uffici pubblici compresa una Gabella della farina), le somme offerte in onore della Madonna delle Grazie alla quale era dedicata la omonima piazzetta della Marina, le donazioni al Monte dei Marinai di Cassano ( costituito con atto del Notaio Michelangelo D’Urso del 1748 per istituire un fondo destinato all’assistenza di vedove ed orfani dei marinai periti in mare nonché per riscattare i marinai catturati dai corsari del Nord Africa )ed ,in ultimo, le somme versate al prete per benedire la polacca prima del varo e quelle necessarie per tenere una grande festa nella piazzetta dinanzi alla cappella dopo il varo.
Ed a proposito del monte dei Marinai della Marina di Cassano è utile precisare che notevole era la funzione che capitani ed armatori affidavano a questa istituzione sorta, come detto, con atto del notaio Michelangelo D’Urso del 14.luglio.1748 .
Ivi Capitani e Padroni Marittimi fissavano l’ammontare dei contributi da versare al Monte che era associazione di mutuo soccorso in favore dei marinai; dal suo fondo venivano prelevate le somme per pagare il riscatto in caso di cattura in mare da parte dei pirati magrebini oppure per aiutare le famiglie dei marinai che perivano nel corso di un naufragio. Al Monte era delegata anche l’assistenza sanitaria per i consociati e per le loro famiglie. L’ho già riferito nel precedente articolo (degli atavici contrasti tra carottesi e sorrentini) e lo ribadisco in questo perché trovo la notizia tangibilmente di gran rilievo. Da un atto del notaio Michelangelo D’Urso Junior affiora che il notaio presente nello studio medico di tal dott Francesco Saverio Mastellone attestasse i nominativi di marinai o loro familiari visitati dal professionista. Il verbale permetteva al Dott. Mastellone di essere rimborsato degli onorari per le visite praticate dal Monte dei Marinai di Marina di Cassano. Una forma primordiale ma indubbiamente efficace di assistenza sanitaria.
E, dunque, Marina di Cassano era il polmone economico al quale si ricollegavano tutte le attività più importanti svolte nel piano. Dalla frequenza degli atti notarili relativi ai contratti di costruzione e da due statistiche ,di cui una effettuata nel 1727 durante il vicereame Austriaco (furono censiti 115 bastimenti più grandi oltre a vari più piccoli) e, l’altra, nel 1785 , al momento della riorganizzazione delle suole nautiche del Piano (allorquando furono registrati 170 bastimenti più grandi), ritengo corretto supporre che ogni anno venissero varati almeno due bastimenti più grandi ed un buon numero di barche più piccole.
Devo riferire, per correttezza, che nella mia ricerca non ho visionato tutti gli atti notarili di quell’epoca ma soltanto alcuni. Operavano nel Piano di Sorrento oltre ai notai ai quali ho fatto riferimento diversi altri dei quali non ho preso visione e che, con molta verosimiglianza, hanno stipulato contratti relativi all’attività marittima del Piano. Mancano alla mia ricerca tutti gli atti relativi alle attività dei capitani di Meta che, sicuramente, in quello stesso periodo si davano parecchio da fare.
Un’ultima curiosità. Ho rinvenuto numerosi atti relativi alla costruzione di tartane, pinchi e polacche ma solo uno che riguardasse il varo di una martingana (o marticana) della capacità di 2.500 tomoli ordinata dal capitano Antonio Cacace al Maestro d’Ascia Giosuè De Rosa. Un tipo di bastimento evidentemente non molto diffuso nella marineria del Piano di Sorrento ma non molto dissimile da una tartana. Questo tipo di imbarcazione, di solito munito di un albero centrale con vele quadre ed un altro con vela latina, copriva le medesime rotte di tartane, polacche e pinchi.
Con quest’ultimo articolo al momento ho esaurito i piccoli saggi che mi ero proposto, approfittando della forzata stasi, di scrivere sulla nostra storia locale e che intendo raggruppare, con eventuali ulteriori approfondimenti, in un unico volume. Spero di essere riuscito a darvi un’idea di quale potesse essere la vita nelle nostre contrade nel XVII e XVIII secolo e come fosse strutturata la società e l’economia del Piano di Sorrento 2-300 anni fa. Ho ritenuto decisivo indugiare in modo particolare sul ‘700 perché è proprio in questo secolo che si forma quella classe imprenditoriale marittima che tanto lustro darà a Piano di Sorrento, ma anche a Meta e S. Agnello, nel XIX secolo. Due esempi per tutti: Francesco Saverio Ciampa si indusse alla sua avventura armatoriale anche , forse, perché introdotto in quell’ambiente dalla famiglia della moglie Emilia Cacace pronipote di quel Capitano Antonio Cacace che abbiamo visto impegnato sulla rotta dalla Puglia verso Londra negli anni 1762 e 1763 ed Achille Lauro, a sua volta, discendeva da quella di marinai che già nel XVIII secolo era ai vertici dell’armamento navale del Regno di Napoli.
Mi sono posto come prossimo obiettivo quello di esaminare e rielaborare il materiale raccolto più recentemente presso l’Archivio di Stato di Napoli e quello Notarile. Ho preso visione degli atti di due mie avi, il Notaio Antonino Maresca, in servizio a Massa Lubrense dal 1839 al 1850 ed a Piano fino al 1885, ed il Notaio Pietro Maresca (figlio di Antonino) in servizio prima a Sorrento e, poi, dal 1878 al 1903 a Piano di Sorrento. Molti atti inerenti la flotta Ciampa furono stipulati proprio da lui verosimilmente scelto, oltre che per capacità professionali, pure per la stretta parentela con il Dott. Antonio Maresca (di cui era cugino) che, nel 1881, dell’armatore aveva sposato la figlia Giovanna Ciampa. Ma interessanti sono anche gli atti dei Notai Antonino Massa (nipote di Biagio Massa e pronipote di Antonino Arcangelo Massa) in servizio dal 1810 al 1825 e Ferdinando Castellano in servizio fino al 1845. Mi è stato abbastanza più semplice apprendere di taluni accadimenti dell’800, soprattutto di quelle inerenti la flotta Ciampa, perché me ne parlava diffusamente mia Nonna Silvia Maresca che di Francesco Saverio Ciampa era una nipote. Nell’anticipare, quindi, i temi del prossimo lavoro vi propongo in visione un ex voto inedito dedicato da tale Capitano Francesco Gargiulo alla Madonna del Lauro di Meta e la notissima foto del brigantino Teocle sullo scalo di alaggio nel vallone di S. Giuseppe a Cassano nel 1873. Il Teocle fu varato dal capitano Salvatore Maresca soprannominato “O’ Cataro. Ho scritto questa storia prevalentemente sulla scorta delle notizie scaturite dalla lettura di vecchi atti notarili e, salvo qualche errore dettato da errata interpretazione degli antichi scritti e da fretta di completare il lavoro al più presto (sperando di poter tornare al più presto a quello che normalmente svolgo), si tratta di notizie sufficientemente attendibili e tali da consentire di conoscere particolari spesso inediti.