Francesco Saverio Esposito: “Degli atavici contrasti tra Sorrentini e Carottesi”
Ho letto della recente proposta di riunire in un unico Comune tutti i Comuni della Penisola da Meta fino a Massa Lubrense. In sè l’idea non appare malvagia perché di certo permetterebbe, oltre a una riduzione dei costi di gestione, un’amministrazione più omogenea quanto meno per i quattro Comuni centrali ovvero Meta, Piano di Sorrento, S.Agnello e Sorrento che prospettano sullo stesso golfo e sono racchiusi in una fascia costiera di appena 4 Km.
E però chi fa queste proposte di certo ignora la forte litigiosià che in un passato, sia pure non recente, ha contraddistinto i rapporti tra abitanti nel Piano di Sorrento e dimoranti nella città di Sorrento. Attriti che si acuirono a partire dal periodo vicereale spagnolo e cioè da quando i vari nuclei sparsi in quest’area esterna alla città iniziarono ad avere una definita consistenza urbana.
In periodo vicereale la Pnisola era divisa in tre distinti Comuni: Vico Equense, Sorrento e Massa Lubrense la cui estensione territoriale coincideva con quella delle rispettive sedi vescovili.
Il Piano di Sorrento, del quale erano parte integrante oltre all’area corrispondente all’attuale Comune di Piano di Sorrento anche quella corrispondente agli odierni Comuni di Meta e Sant’Agnello, diviso in cinque terzieri (Carotto, Trinità, Meta, Angri e Maiano), era parte integrante della Città di Sorrento.
Dal 1491 era stata concessa agli abitanti del Piano di Sorrento facoltà di nominare nel parlamentino cittadino, che si riuniva in Sedil Domivona (posto nel centro di Sorrento in via P.Reginaldo Giuliani) un Sindaco e quattro eletti che affiancavano i tre Sindaci ed i 12 eletti di Sorrento.
In seguito, dal 1542, per volontà del vicerè Don Pedro de Toledo, gli eletti ed i Sindaci del Piano furono autorizzati a riunirsi, come rappresentanti di una Universitas Civium autonoma, nella Chiesa di San Michele.
Il che, come risulta da una raccolta di atti e provvedimenti denominata “Summarium” custodita nell’archivio della Basilica di S.Michele, avveniva almeno una volta l’anno, nel mese di agosto, al suono della campana. Assemblee nelle quali avevano parte decisiva, come ho avuto modo di ricordare nel precedente articolo (quello sulla storia della cappella di S.Giovanni nell’omonimo vicolo), capitani e padroni di bastimenti delle storiche famiglie mercantili del Piano di Sorrento (Maresca, Cota, Cacace, Massa, Mastellone, Lauro ma anche Iaccarino, Cafiero ecc…) strette com’erano tra loro da vincoli d’affari e, spesso o quasi sempre, di sangue.
In particolare dalla lettura di quei verbali, solitamente rogati con l’intervento di un notaio (ho reperito verbali redatti alla metà del 600 dal Notaio Agostino Massa (1629-1662), che della Universitas Civium fu anche Sindaco e poi, più tardi, dal Notaio Paolo De Ponte ( 1674 – 1710), dal Notaio Michelangelo D’Urso (1728 – 1764), dal Notaio Giovan Michele De Lauro (1747-1757), dal Notaio Biagio Massa (1759-1810) ed altri ancora, traspare con chiarezza quanto peso decisionale avessero i padroni di bastimenti, gli stessi che ogni anno versavano fior di ducati all’Amministrazione della Insigne Real Collegiata di S.Michele per mantenerla ed abbellirla.
In un documento del 1728 i canonici della Insigne Real Collegiata di S.Michele deliberano che ai capitani ed ai loro congiunti prossimi fossero dovuti, senza pagamento di ulteriore emolumenti, funerali e messe.
Era un periodo storico nel quale, diversamente da oggi, non si notava (perché di fatto non c’era) eccessiva presenza dello Stato e tutto o quasi era lasciato all’iniziativa privata che ovviamente non poteva che essere nelle mani di chi, di fatto, aveva potenza economica. In un’area come la nostra Penisola, il più importante distretto marinaro dell’area tirrenica del Regno (tale riconosciuto in un censimento effettuato nel 1727 dall’Amministrazione Vicereale Austriaca), non poteva anche l’iniziativa politica non appartenere se non a chi vi esercitava la più rilevante attività imprenditoriale ovvero quella marittima.
La vita politica e di relazione era tutta nell’ambito degli edifici religiosi come la Chiesa di S.Michele con le sue congreghe e l’annesso Monastero di S.Maria della Misericordia.
Da alcuni verbali del 700, trasfusi in atti notarili, affiora che le riunioni, sia per decidere di volta in volta dell’amministrazione dell’edificio religioso sia per trattare dell’amministrazione dell’Universitas Civium, si tenevano nella sagrestia della Chiesa di S.Michele o, anche, in quella dell’annessa Congrega della SS Annunziata (risalente al 1631). Il 14 luglio 1748, come emerge dalla raccolta degli atti del Notaio Michelangelo D’Urso (Rep. anno 1748 presso Archivio Distrettuale Notarile in via S.Paolo), si riuniscono Capitani e Padroni Marittimi ed approvano lo statuto con cui veniva fissata a carico di ciascuno di loro la misura dei contributi da versare al Monte dei Marinai della Marina di Cassano.
Una forma di assicurazione e di mutuo soccorso in favore dei marinai che includeva la possibilità di attingere al fondo per prelevare le somme necessarie a pagare, in caso di cattura in mare da parte dei pirati magrebini, il riscatto oppure per aiutare le famiglie di chi periva nel corso di un naufragio o, ancora, per fornire a marinai e familiari assistenza medica.
In un altro atto, del Notaio Michelangelo D’Urso Jiuniore (rep. 6 anno 1734 – Archivio Notarile Distrettuale di Napoli), sono attestate con estrema precisione tutte le visite che un medico, tale Dott. Francesco Saverio Mastellone, eseguiva in favore di padroni marittimi o loro familiari.
Lo scopo era quello di consentire al Dott. Mastellone di essere in seguito rimborsato dell’onorario dal Monte dei Marinai di Marina di Cassano. Una forma primordiale ma indubbiamente efficace di assistenza sanitaria.
Ritornando al XVII secolo mi sembra conveniente segnalare che nel luglio del 1645, sotto il sindacato del Notaio Agostino Massa, sorsero contrasti tra il Piano di Sorrento e l’amministrazione cittadina di Sorrento che reclamava dai cittadini del Piano la metà delle spese sostenute per il riscatto delle terre demaniali, in parte ricadenti nel territorio del Piano e a cui, peraltro, le famiglie patrizie di Sorrento si erano fermamente opposte.
Erano i prodromi delle contese molto più gravi che ci sarebbero state di lì a qualche anno. Nel mese di Luglio del 1647, a Napoli era scoppiata la nota rivolta di Masaniello rappresentata in numerosi dipinti di Domenico Gargiulo conosciuto come Micco Spataro dall’attività che svolgeva il padre.
Nonostante l’Amministrazione Vicereale nella capitale avesse avuto immediatamente ragione dei rivoltosi, l’anno successivo, nel mese di gennaio 1648, i tumulti si estesero alla Penisola Sorrentina e ne furono protagonisti abitanti del Piano e Massesi.
Abilmente fomentati da emissari del Duca di Guisa, tale era l’avventuriero genovese Giovanni Grillo, gli abitanti del Piano si ribellarono alla Spagna ma in realtà, a ben vedere, la sollevazione aveva come reale obiettivo Sorrento. A dare impaccio alle famiglie del Piano non era l’amministrazione vicereale, troppo lontana e poco interessata a vessarle, ma l’amministrazione cittadina di Sorrento.
Le famiglie mercantili del Piano di Sorrento erano sostanzialmente famiglie borghesi anche se taluni studi (Canzana Avarna la definisce “Nobiltà fuori seggio di Sorrento”) le definiscono nobiltà fuori porta di Sorrento. Una nobiltà di servizio più che di sangue che, non di rado, però, riusciva ad ottenere dalla Corte titoli e privilegi.
I nuclei familiari storici della parrocchia di S.Michele (alcuni come Cota, Maresca, Massa, Mastellone, De Ponte, Cacace avevano addirittura origini medievali) delle famiglie patrizie avevano talune caratteristiche e modi di essere. Ad esempio avevano proprio stemma familiare talvolta anche molto risalente nel tempo, possedevano cappelle gentilizie, applicavano in caso di successione ereditaria la regola del maggiorascato ed altro ancora.
E però sostanzialmente erano famiglie borghesi che traevano reddito da attività commerciali, essenzialmente da traffici marittimi che esercitavano con bastimenti (tartane, pinchi o polacche) varati alla Marina di Cassano o a quella di Alimuri. Questi nuclei, in quanto ceto produttivo, mal sopportavano il governo imposto dal parlamentino sorrentino e le motivazioni sono facili da intuire.
Nel Piano erano preminenti attività commerciali e marinare nelle quali già da secoli si distinguevano, per capacità ed intraprendenza, capitani e padroni di bastimenti delle famiglie Lauro, Maresca, Cacace, Massa, Mastellone ecc……
Sorrento, racchiusa nelle mura fatte edificare dagli Spagnoli nel 1570, dopo il sacco ad opera dei Turchi nel 1558, contava meno abitanti del Piano di Sorrento ma, soprattutto, meno attività. Nella cinta muraria risiedeva la nobiltà di sangue adusa a vivere di rendita e tralasciare ogni altro impiego o lavoro; gli altri, il cosiddetto popolino, escluso quello formato da contadini fittuari dei fondi dei nobili, era dedito a ridotti lavori artigianali o modeste attività commerciali a servizio dei pochi che dimoravano all’interno delle mura cittadine.
Nulla di paragonabile a quanto, nello stesso periodo, avveniva nel Piano dove le famiglie più antiche ed in vista avevano ben altri e variegati interessi (si immagini che già nei secoli XVII e XVIII alcune famiglie e segnatamente Lauro, Maresca e Cafiero, possedevano magazzini commerciali in Puglia, in particolar modo nella Città di Gallipoli, ma anche, a partire dal ‘700, in altri porti del Mediterraneo (Marsiglia ecc..), usati per stivarvi le merci da imbarcare sul loro naviglio).
Esse costituivano una ricca ed operosa classe imprenditoriale formata da piccoli (a ben vedere le statistiche del 1727 a cura dell’Amministrazione Vicereale Austriaca che inquadra quella del Piano come la più cospicua marineria della costa tirrenica del vicereame neppure tanto piccoli) armatori, capitani e padroni marittimi, tesa a capitalizzare e investire in settori che oggi definiremmo terziari. Era il differente tessuto produttivo a spingere la popolazione di questa fascia della Costiera a chiedere, senza ottenerla, all’Amministrazione vicereale l’autonomia da Sorrento. Decisamente più votato agli scambi commerciali il popolo di quest’area non intendeva sottostare alle vessazioni, anche di ordine fiscale, della nobiltà e del clero sorrentino.
E, dunque i Carottesi presero a volo l’occasione di ribellarsi a Sorrento ed insieme ai Massesi posero la città sotto assedio. Nell’occasione alla Marina di Cassano furono armate tartane e pinchi che, di fatto, cercarono, senza riuscirvi, di prendere Sorrento da mare bombardandola.
Le milizie vicereali furono in grado, con l’ausilio del fuoco delle batterie poste a difesa della città, in particolare, da quelle del fortino di S.Francesco di cui sono ancora visibili i bastioni a destra della penultima curva prima di giungere a Marina Piccola, di respingere la minaccia. Non mancò l’intervento da mare di una piccola flotta vicereale, di stanza a Napoli, che, però, fu impedita di sbarcare a Meta dove incontrò la decisa opposizione di batterie piazzate, pare, nello spiazzo oggi meglio conosciuto come P.zza Scarpati (all’epoca molto più esteso ed a picco sul mare).
L’esito, come si sa, fu disastroso: i moti repressi nel sangue, l’ultima resistenza, pare, si sia consumata nella torre di via del Lauro a Meta rasa al suolo dagli Spagnoli.
Ne restò in piedi solo la base, tuttora riconoscibile, in via casa Lauro, di fronte agli ex Uffici Postali. Il Grillo fu catturato e giustiziato, con lui furono giustiziati anche alcuni esponenti delle famiglie storiche di Piano di Sorrento che avevano capeggiato la rivolta. Ma ovviamente la cosa non finì lì e gli abitanti del Piano continuarono vanamente a cercare l’autonomia. Nel 1708, prima ancora che finisse la guerra di successione spagnola e fosse sottoscritto, nel 1713, ad Utrecht, il trattato di pace che attribuiva il Regno di Napoli agli Asburgo d’Austria, questi si erano già insediati nel sud. Le insistenze dei carottesi, rivelatesi vane nel periodo spagnolo, alla fine qualche risultato lo conseguirono proprio durante il vicereame austriaco.
Nel 1726 il Vescovo di Sorrento Mons. Ludovico Agnello Anastasio, con l’approvazione del Papa Benedetto XIII, concedeva autonomia alla Parrocchia di S.Michele erigendola ad Insigne Real Collegiata.
Da quel momento i canonici dei cinque terzieri che formavano la Universitas Civium del Piano di Sorrento si sarebbero riuniti non già in cattedrale a Sorrento bensì nella chiesa di S.Michele. E, dunque, a Piano nella canonica della chiesa di S.Michele e non più a Sorrento nel capitolo della cattedrale sarebbero convenuti i religiosi dei terzieri di Meta e S.Agnello oltre a quelli di Trinità e Maiano.
Nel frattempo in Europa si avvicinava una nuova tempesta. Nel 1733 scoppiava la guerra di secessione polacca della quale profittavano Filippo V di Spagna e sua moglie Elisabetta Farnese per dare un regno al loro figliolo Don Carlos. Questi nel 1734 partì dalla Spagna alla conquista di Sicilia e Napoli. Le truppe spagnole, di fatto comandate dal Maresciallo Josè Carillo De Albornoz Conte di Montemar, si imbarcavano ad Antibes, in Costa Azzurra, per sbarcare a Genova ed a Livorno dove si univano ad altri reparti provenienti da Parma e guidati personalmente da Carlo.
Di qui i Borbonici ridiscendevano la penisola alla conquista del regno e Carlo entrava nella città di Napoli già nella primavera del 1734. Ciò spingeva anche il parlamentino Sorrentino, sia pure con ritardo (la riunione avveniva il 15 maggio del 1734 mentre ormai Carlo si era insediato a Napoli già da qualche mese), a riunirsi riconoscendone l’autorità e, anzi, la città affidava al Principe Correale l’incarico di fare atto di sottomissione al nuovo Sovrano. Ben altro era stato nel frattempo il comportamento degli abitanti del Piano e sopratutto dei suoi capitani.
Non ho in proposito reperito documenti specifici ma sempre dagli atti della raccolta del “Summarium” è possibile fare alcune considerazioni .
Appena dopo l’insediamento di Carlo i canonici di Sorrento, con una petizione del 31 maggio 1734 volta al Vescovo di Sorrento Mons. Ludovico Agnello Anastasio ma fatta pervenire anche al Re, lamentavano che l’erezione, nel 1726, di S.Michele ad Insigne Real Collegiata fosse un atto errato perché non ve ne fossero i presupposti.
E non a caso la petizione, predisposta da tale Dott. D.Francesco Antonio Ruocco, è volta ad evidenziare le “pretenzioni della novella Collegiata di Carotto del Piano della stessa città”. Quali i motivi di lagnanza?
In sintesi a dire dei religiosi sorrentini l’Universitas del Piano non aveva alcuna caratteristica o qualità che giustificasse la concessione del privilegio, non vi era nel Piano nulla di nobile, gli abitanti erano civilmente mediocri dediti unicamente alla coltivazione del terreno (in pratica dei rustici villani), bottegai e marinai. Inoltre l’Universitas del Piano non aveva, era questa di certo l’opinione dei nobili sorrentini (sia pure materialmente espressa dai Canonici del capitolo della Cattedrale), né dimensione né configurazione urbana all’altezza di una Collegiata. Nella Universitas Civium del Piano nemmeno esisteva un centro urbano ben definito.
Espressioni particolarmente dure e sprezzanti quelle rivolte agli abitanti del Piano indicati come rozzi campagnoli, mercanti da strapazzo, pescatori e semplici marinai.
A sostegno della petizione si schieravano i Vescovi di Massalubrense, Vico Equense ed Amalfi che facevano proprie le accuse dei Sorrentini e, anche, i parroci di S.Maria del Lauro a Meta e della chiesa dei Santi Prisco ed Agnello di S.Agnello.
Il parroco di S.Agnello, Don Domenico Castellano, e quello di Meta, Don Gaetano Cafiero, si rammaricavano di essere costretti a partecipare a tutte le manifestazioni religiose che si tenevano a S.Michele, di doverne seguire disciplinatamente le disposizioni e, in definitiva, di dover prendere disposizioni dal Parroco della Insigne Real Collegiata di S.Michele che aveva assunto il titolo di Arciprete.
Appare chiaro che i Vescovi di Amalfi, Vico Equense e Massa Lubrense al pari dei due parroci di Meta e S.Agnello avessero sottoscritto in bianco quelli che oggi definiremmo dei prestampati predisposti dai canonici di Sorrento.
La realtà era, tuttavia, ben diversa da quella che il nostro Dott. Antonio Francesco Ruocco voleva dare ad intendere e nel Piano di Sorrento si celava una delle più notevoli se non la più notevole potenza marinara (mercantile ovviamente) e commerciale esistente in quel momento nel Regno di Napoli. Ma non v’era da meravigliarsi affatto delle ingiuriose espressioni usate dai canonici sorrentini.
Quelle frasi così sprezzanti ed offensive altro non esprimevano se non il reale pensiero delle famiglie patrizie della città. Era quanto mai esplicito che l’iniziativa dei canonici fosse stata propiziata dai nobili di Sorrento che, da sempre, non vedevano di buon occhio l’ascesa, anche politica oltre che mercantile, della storiche famiglie del Piano di Sorrento e più, segnatamente, di quelle dimoranti nel terziere di Carotto.
Ma, anche all’epoca, c’era chi sapeva muoversi politicamente e pensò bene di girare copia della ingiuriosa petizione ai diretti interessati e, quindi, ai Carottesi. Questi non persero tempo e immediatamente si diedero a raccogliere atti e documenti inoppugnabili per documentare al Vescovo ed al Sovrano quanto le critiche mosse dai Sorrentini fossero ingiuste, infondate e calunniose.
E quale replica avrebbe potuto avere maggior effetto sul Sovrano se non quella che gli rammentava dei servizi recentemente alla Sua Maestà resi da capitani e padroni di bastimenti di Cassano ed Alimuri ?
Nel libello difensivo i Carottesi raccolgono vari attestati che comprovano l’importanza e la magnificenza delle attività svolte nel Piano a partire da quelle marittime e cantieristiche, la maestosità dei loro palazzi, lo splendore della chiesa di S.Michele e, al contrario di quanto asserito nella petizione, l’esistenza di una nobiltà se non di sangue di servizio ben rappresentata da numerosi Medici, Notai, Avvocati, Capitani e Padroni di bastimenti.
Con certificazione del 7 marzo 1734 il Regio portolano Francesco Antonio D’Ardia unitamente al Regio Ufficiale Fiscale Pietro D’Auria ed al Regio Credenziere Felice Fienca attestavano che nel Piano di Sorrento abitassero ben 13.000 cittadini e vi fossero oltre 100 tra tartane, pinchi ed altri bastimenti e, in più, che molti dei capitani e padroni di tali bastimenti si erano distinti al servizio di Sua Maestà Cattolicissima.
Anzi in proposito i Funzionari Regi richiamano un dispaccio del 26 aprile 1734, quindi successivo o coevo all’entrata di Carlo in Napoli, inviato dal Conte Luis Emmannuel De Charny (braccio destro di Carlo per le operazioni militari nella città di Napoli e primo Viceré nominato immediatamente dopo la conquista della capitale ) all’allora Sindaco del Piano Giovan Battista De Martino.
Dal tenore del dispaccio, scritto in lingua spagnola (Magnifica y Amado de Su’ Maiestad si ha riccuido vostra charte del 23 del corrente enque raprecientais la difficultad que se encuentra entener les ciento diex marineros. Napoles y Abril 26 del 1734 .El Conte de Charni’) affiora con certezza che capitani e padroni di bastimenti avessero attivamente collaborato con gli spagnoli per cacciare gli Asburgo d’Austria da Napoli.
E’ lecito ipotizzare che gli accordi fossero stati stretti prima o contestualmente all’inizio della spedizione intrapresa da Carlo in Italia. D’altronde la promessa di Carlo (solennemente promulgata il 14 marzo 1734) di abolire tutti i pesi fiscali imposti dagli Austriaci non poteva non avere ripercussioni su una classe imprenditoriale quale era quella del Piano di Sorrento che le tasse, a differenza dei nobili di Sorrento, era tenuta a versarle. Anche in questo si deve cogliere l’ulteriore differente comportamento tra le famiglie patrizie di Sorrento e quelle mercantili del Piano di Sorrento. Le prime attesero il pieno successo dell’impresa per riunire, nella metà di maggio del 1734, il parlamentino cittadino e, coerentemente con la prammatica emanata da Carlo, fare atto di sottomissione al nuovo Sovrano. I capitani del Piano non avevano atteso alcuna prammatica reale, ma già in precedenza avevano deciso con chi schierarsi avendo avuto chiaro sentore che Carlo potesse riuscire a concludere vittoriosamente l’impresa. Era proprio uno spirito diverso quello che permeava capitani ed armatori del Piano rispetto ai patrizi sorrentini, questi molto più propensi dei primi alla conservazione che non ai cambiamenti.
E di tanto se ne ha conferma dalle argomentazioni usate dai Carottesi per dimostrare la bontà delle loro ragioni. Essi pongono in evidenza come alcuni capitani di bastimenti e segnatamente Pietro (o Pietro Antonio) Maresca, Ignazio Lauro, Salvatore Lauro, Francesco Romano, Erasmo Cafiero, Mattia Cafiero, Antonino Cafiero e Prospero De Martino avessero, nelle vicende di questo travagliato inizio dell’anno 1734, reso importanti servigi al Re ricevendone in cambio benefici e privilegi.
Sulla natura di tali servigi non ho trovato al momento documentazione. E’ possibile che i bastimenti del Piano di Sorrento avessero nell’interesse del Re trasportato truppe o materiale logistico o anche, addirittura, operato come vascelli corsari.
In un testo intitolato “Giornale Storico edito nel 1742 a cura del Giureconsulto Giuseppe Senatore” si narra degli avvenimenti in quella convulsa primavera del 1734 e, anche, delle operazioni condotte dalle forze navali spagnole per la conquista prima delle isole del Golfo, in particolare di Procida (altro importantissimo centro di marineria del Regno) e poi della città di Napoli. Le operazioni furono condotte da una flotta spagnola costituita da 7 vascelli da guerra coadiuvate da ben 35 tartane napoletane. E’ probabile che un numero significativo di tali bastimenti appartenesse a capitani del Piano di (ed altre ai capitan procidani) e che tra essi vi fossero proprio quegli otto ai quali Re Carlo concede benefici e privilegi.
Ed invero dai registri parrocchiali del XVIII secolo, dove si annotavano i contributi versati da capitani e padroni di bastimenti all’amministrazione laica di S.Michele, emergono i nominativi di alcuni dei capitani individuati quali beneficiari di privilegi reali e, per l’esattezza, quelli dei capitani Ignazio Lauro, Salvatore Lauro e Pietro Antonio Maresca (I primi due della storica famiglia Lauro ed il terzo della stirpe soprannominata “Mangiagalline”, i tre erano cugini. Ulteriore curiosità: nel 1770 una figlia del Capitano Prospero De Martino (tra i capitani che avevano reso servizi al Re), di una stirpe di armatori dimoranti nel Vico Casa Miccio a Meta, andò in sposa al cap. Saverio Maresca figlio di capitan Pietro Antonio).
Dai rendiconti dell’Amministrazione di S.Michele) del 1711 e del 1714 affiorano due particolari.
Nel rendiconto del 1711 compaiono, tra gli altri, i nominativi di Salvatore Lauro e Pietro Antonio Maresca che effettuano congiuntamente i versamenti a significare che erano probabilmente, oltre che cugini, soci nella gestione di uno o più bastimenti.
Dal rendiconto del 1714, invece, affiora che il bastimento di Pietro Antonio Maresca fosse un “vascello” e, quindi, qualcosa di più di una tartana, un pinco o una polacca. Era il “vascello” un bastimento a più ponti di cui uno poteva essere armato con artiglierie di bordo ovvero con cannoni simili a quelli che ornano il monumento ai caduti in P.zza Cota.
Il che potrebbe significare che quello di Pietro Antonio Maresca avesse, in astratto, caratteristiche tali da essere potenzialmente idoneo alla guerra di corsa. Il che chiarirebbe le ragioni per le quali a questo capitano, dopo il 1734, e per la precisione il 18 febbraio 1737 furono conferiti, con decreto del Sovrano, ulteriori-privilegi di cui, dopo la sua morte avvenuta nel 1744, continuò a fruire la vedova, Caterina Massa, come risulta dal Catasto Onciario del 1754.
Per meglio rafforzare le proprie argomentazioni gli abitanti del Piano magnificarono tutto quanto vi era di pregevole nel territorio della Universitas Civium: palazzi, chiese, monasteri (oltre quello della Misericordia attiguo alla Chiesa di S.Michele, sono menzionati quello dei Frati Cappuccini nella zona attualmente conosciuta come Madonna di Roselle, quello dei Carmelitani a S. Teresa ed ancora un altro dei Padri Gesuiti nel Rione di Angri) ed altro. Inoltre vengono enumerati tutti quei cittadini che, con le loro attività o professioni, avevano dato lustro alla comunità.
In unattestato stilato il 4 maggio 1734 dal Notaio Antonino Arcangelo Massa figurano più di un ufficiale in servizio sulle navi rege: il Capitano Aniello Cacace sulla nave S.Michele, il capitano Carlo Cacace sulla galea S. Elisabbetta (dovrebbe trattarsi del nonno del Dott. Carlo Cacace, medico nella città di Napoli nella seconda metà del 700’ e padre dell’avv.Tito Cacace già senatore nel primo parlamento post unitarioriunitosi nel 1861 a torino), il capitano Tommaso Cacace (questi potrebbe essere un avo del Com.te Amedeo Cacace di Meta recentissimamente scomparso ed eroe della guerra sottomarina nella Seconda Guerra mondiale) ed il Capitano Gaspare Cacace, tutti in servizio sulla S. Elisabetta ed altri ancora. (la galea Elisabetta fece parte del nucleo iniziale della flotta da guerra borbonica che al Comando del Capitano Giuseppe Martinez, meglio conosciuto come capitan Peppe, che inflisse notevoli sconfitte, in scontri sul mare, ai corsari del Nord Africa. Gli equipaggi catturati furono impiegati nella costruzione della Reggia di Caserta).
Nello stesso attestato è menzionato un capitano Fabio Massa che, distintosi con il suo galeone al Servizio della Regina Giovanna d’Angio, fu da questa elevato a nobiltà. A sua volta un suo discendente, Don Giacomo Massa, si era distinto quale capitano d’artiglieria di Carlo nella conquista della città di Pescara.
Con altra nota del 6 febbraio 1734 il Notaio Giuseppe D’Urso attestava che erano cittadini dell’Universitas il Duca Nicola Maresca, Presidente della Camera della Sommaria (in pratica la Corte dei Conti del Regno di Napoli), il Giudice della Gran Corte della Vicaria Barone Francesco Antonio Mastellone, il conte D. Giovan Battista Maresca, il Governatore D. Matteo Maresca, il Barone d’Ascia D. Nicolò Mastellone e numerosi Dottori in Medicina (in quel periodo era, tra gli altri, medico nel Piano un Antonino Andrea Maresca (1681-1754) fratello del Capitano Pietro Antonio Maresca destinatario di privilegi reali e di cui ho parlato poc’anzi), Notari Regi ed Apostolici (cosiddetta nobiltà di servizio) esercenti nel Piano ma anche nella città di Napoli (ed infatti a Napoli esercitavano funzioni notarili Pietro Aniello Maresca (1704-1749) e prima di lui nel 500 Ferrante Maresca e Giovan Carlo Maresca a cui dobbiamo la trascrizione dell’atto fondativo della Chiesa di S.Michele nel 1554).
Particolare attenzione merita l’accurata descrizione della chiesa di S.Michele contenuta in una relazione del 4 maggio 1734 elaborata da una commissione di tre ingegneri regi, Pietro Vinaccia, Giovanni Papa e Michelangelo Porzio. I tre stendono una relazione precisa nei minimi dettagli descrivendo gli interni dell’edificio religioso ed indicando una ad una tutte le opere d’arte in essa contenute. Dal resoconto affiora una articolazione interna dell’edificio religioso significativamente diversa da quella odierna.
Nella chiesa vi erano 15 cappelle e, dunque, più di quante non ve ne siano oggi. La maggior parte corrispondenti alle attuali ma alcune, come le cappelle delle famiglie De Ponte e Murli, sono state eliminate durante i lavori di ristrutturazione eseguiti nel 1886.
Sul lato sinistro della chiesa, all’epoca, attaccati ai pilasti, vi erano tre altari di cui uno, dedicato a S.Maria di Costantinopoli, della “illustre famiglia De Ponte” sormontato da un quadro del pittore seicentista Giacomo De Castro ed altre due cappelle di cui una della famiglia Mastellone sormontate da due quadri di cui uno del celebre pittore seicentista romano Carlo Maratti ed altro da allievo della sua scuola.
Questi (Camerano, 15 maggio 1625 – Roma, 15 dicembre 1713) è stato una figura centrale della pittura romana ed italiana della seconda metà del Seicento ed in vita fu celebrato come il massimo pittore del suo tempo, improntando anche gran parte della produzione artistica del secolo successivo (mi chiedo: che fine hanno fatto i due dipinti?). Il che dà idea di quanto fossero ricche e potenti le famiglie del Piano tanto da potersi permettere i più accreditati artisti del tempo, taluni di fama nazionale come il maestro Giovan Battista Antonini, allievo del Bernini, che realizzò nei primi del ‘700 la balaustra in marmo ornata da puttini d’accesso all’altare maggiore. All’artista fu dato un compenso di 15.000 ducati. Per comprendere quanto fosse enorme la cifra si presti attenzione che una polacca costruita sugli scali di Cassano dopo la metà del XVIII secolo costava circa 4-5.000 ducati.
Non mi dilungherò oltre sulla descrizione, pur avvincente, della chiesa e delle opere d’arte all’epoca compiuta dai tecnici regi. La relazione merita approfondimento non fosse altro che per verificare quali modifiche siano intervenute successivamente al 1734.
All’epoca la pavimentazione era in pregiate maioliche prodotte dalla celebre fabbrica napoletana Leonardo Chiaiese (il pavimento fu purtroppo sostituito con marmo durante i lavori di sistemazione eseguiti nel 1886 sotto la Presidenza del Capitano Salvatore Maresca (O’Catar’) e nell’occasione furono eliminate le cappelle delle famiglie Murlo e De Ponte nonché 44 lastre sepolcrali di cui una dedicata ad un capitano padrone di bastimenti Giovan Camillo Lauro figlio di uno Stefano Lauro, vissuto tra il 1630 ed il 1701 e di un dottore in medicina D. Argangelo Maresca vissuto nel ‘600).
Il rapporto non manca di riferire della magnificenza di taluni palazzi esistenti intorno alla Chiesa, lungo la strada che portava alla Piazza di Carotto (corrispondente in parte all’attuale P.zza Cota, ivi si teneva, come ho avuto modo di apprendere da due atti notarili del Notaio Crescenzo Pollio redatti nel 1742, un importante mercato dove si vendeva di tutto: dalle stoffe alla polvere da sparo, dagli attrezzi alle armi, sciabole, pistole e fucili, dalle spezie alla carta, dai libri alle penne d’oca usate per la scrittura ecc….) e lungo l’altra stradina che conduceva al crocivia di Gottola. Vengono citati in particolare il palazzo di Don Giuseppe Mastellone che fu nel 600 Vescovo di Atripalda e quello della illustre famiglia De Ponte posto lungo la via per il terziere di Meta.
Ma ciò che maggiormente ha stimolato la mia attenzione (e credo anche di chi leggera questo articolo) sono state le conclusioni a cui giunsero gli ingegneri regi particolarmente pungenti e, direi, velenose nei confronti dei Sorrentini.
Gli esperti non ebbero dubbi nell’affermare che la Insigne Real Colleggiata fosse di gran lunga più maestosa, ricca di ori, argenti e opere d’arte della Cattedrale di Sorrento!!
“Da tutte le descritte cose e dall’oculare ispezione fatta da Noi sottoscritti della predetta Insigne Collegiata siamo del parere che posta questa a confronto della chiesa Cattedrale della Città di Sorrento sia detta Collegiata molto più vaga e meglio intesa di Architettura e di legno che non è la detta Cattedrale e senza proporzione migliore e più ricca, riguardo agli ornati, marmi, oro, dipinture, quadri ed altre suppellettili nella presente nota in parte descritte.
Un giudizio netto e preciso certamente manifestato con l’intento esplicito di sbugiardare canonici e nobili Sorrentini che improvvidamente avevano giudicato gli abitanti del Piano rustici villani, privi di nobiltà, bottegai e semplici marinai.
Come finì la diatriba è facile da intuire. Né il Vescovo né sua Maestà Cattolicissima intesero dare ascolto alle ingiustificate lamentele sorrentine, mosse da astio piuttosto che da lodevoli o ragionevoli motivi. S. Michele continuò ad essere una Insigne Real Collegiata ed i Parroci di Meta e S.Agnello, Don Domenico Castellano e Don Gaetano Cafiero, malgrado le loro ritrosie, non poterono esimersi dal recarsi, quando convocati, dall’Arciprete a Carotto ed assistere alle manifestazioni religiose ivi organizzate.
Di certo non avrebbe potuto esprimersi contro i carottesi Carlo di Borbone che dei capitani del Piano aveva avuto modo di apprezzare intraprendenza e valore marinaro e che, nel momento cruciale, si era avvalso dei loro servizi.
Anzi sotto il Regno di Carlo e dei suoi successori la potenza economica e marittima del Piano di Sorrento si accrebbe tanto da giustificare nell’ultimo quarto del XVIII secolo il provvedimento di Re Ferdinando IV che vi riorganizzò, con l’ausilio di tale Giuseppe Valletta, le scuole nautiche.
Nel decreto reale è ben precisato che la scuola nautica si rendeva necessaria per l’alto numero di capitani e bastimenti (oltre 170) esistenti nel Piano di Sorrento.
All’epoca il potere economico in Penisola era saldamente nelle mani degli abitanti del Piano come confermano le visure dei registri contabili dei sette antichi banchi che operavano nella Capitale conservati presso l’archivio storico del Banco di Napoli a Palazzo Ricca.
Con frequenza nei registri di cassa dei vari Banchi (Banco di S.Spirito, Banco S. Giacomo e Vittoria, Banco di Santa Maria del Popolo, Banco Ave Gratia Plena, Banco di S.Eligio, Banco dello Spirito Santo, Banco del Santissimo Salvatore) compaiono e sono annotate operazioni effettuate da capitani ed armatori carottesi o metesi che, per i pagamenti, soprattutto se da eseguire a distanza, si servivano abitualmente del sistema bancario napoletano.
In luogo dell’odierno assegno chi effettuava un pagamento poteva farlo versando alla controparte la cosiddetta “fede di credito” che copriva l’importo ivi indicato con somme depositate sul conto dell’emittente.
Nel 1799 uno dei più influenti capitani del Piano, Michele Maresca (Mangiagalline), fu nominato tesoriere generale del più importante dei Banchi operanti in città. Il San Giacomo e Vittoria.
Nel corso del XVIII secoli vi furono altre occasioni di lite tra Sorrentini e Carottesi ma ormai, era evidente come questi ultimi, sull’onda di un crescente potere economico e commerciale, si stessero pian piano rendendo autonomi da Sorrento. La città all’epoca, essendo al di là da venire il Turismo (passerà un altro secolo e mezzo perché il turismo produca a Sorrento effetti economici), aveva di certo un economia meno forte e sviluppata del Piano di Sorrento. La cosa probabilmente stimolava i suoi maggiorenti a cercare lo scontro con i carottesi .
Nel 1771 scoppiò una nuova lite tra canonici della capitolo della Cattedrale e quelli della Insigne Real Collegiata del Piano. I canonici di Sorrento accusavano i secondi di aver violato alcune regole comportamentali ed, a loro volta, erano accusati dai canonici carottesi di indebita ingerenza. Fu necessario l’intervento della Camera di S.Chiara e del Cappellano Maggiore per giungere nel 1773 ad una definizione della lite.
E, dunque, come si vede, i rapporti tra sorrentini e carottesi nel corso dei secoli sono stati piuttosto vivaci .
Nel 1808 allorquando salì al trono Giuseppe Bonaparte, autore di importanti e moderne riforme (abolizione del feudalesimo, estensione anche al Regno di Napoli del nuovo codice civile ecc….) si presentò l’occasione per il Piano di Sorrento di conseguire finalmente la piena autonomia.
Nel corso dell’800 avranno ulteriore sviluppo le attività cantieristiche alla Marina di Cassano e quelle mercantili. Saranno varati a Cassano bastimenti sempre più grandi ed, in particolare, brigantini a palo in grado di navigare in tutti i mari del globo ma questa è un’altra storia.
L’iniziativa di riunire alcuni Comuni della Penisola in un’unica entità amministrativa è certamente da coltivare purchè si tenga conto della storia che hanno attraversate le nostre comunità così vicine eppure, talvolta, così distanti per mentalità, modo di essere e comportamenti. Nessuno può ben operare nel presente ignorando da dove proviene.