L’aggressione cinese all’artigianato partenopeo d’eccellenza
di Agostina La Rana
Com’è noto, l’artigianato partenopeo può vantare (almeno) due eccellenze mondiali: il presepe e le ceramiche di Capodimonte. Eppure negli ultimi anni, tali eccellenze sono state e sono aggredite, nella maniera più vile e criminale possibile, dai cinesi, i quali non solo producono statuine da presepe e ceramiche (fatto questo, di per sé, assolutamente lecito), ma li introducono nel territorio italiano e li commercializzano con sistemi a dir poco sleali e con la complicità di un legislatore inerte, quando non compiacente. Spieghiamo cosa accade ricorrendo a un esempio. Poniamo il caso che nel porto di Napoli o in quello di Salerno giunga un container proveniente dalla Cina pieno di questi prodotti. Fino a pochi anni fa, essi venivano esportati già con la falsa indicazione “Made in Italy”. Se il carico veniva intercettato dai doganieri, la merce veniva sequestrata e l’importatore (di solito un commerciante cinese), veniva denunciato in base all’art. 517 c.p., che individua la parte offesa nel “compratore” (cioè il consumatore). La legge 24 dicembre 2003, n. 350 (all’epoca denominata “finanziaria”, ora “legge di stabilità”), con l’art. 4, comma 49, venne incredibilmente incontro all’importatore, prevedendo la depenalizzazione del reato (“sanatoria amministrativa”) nel caso in cui egli si fosse presentato in dogana e avesse tolto l’etichetta “Made in Italy”, apponendo quella “Made in China” (o del diverso luogo di produzione); diversamente, poteva disinteressarsi del carico sequestrato, andando incontro solo a una lieve pena. Da qualche anno, però, i criminali sono diventati più furbi e nel container caricano solo merce “grezza”, cioè senza alcuna indicazione sul luogo di fabbricazione, ma al massimo una semplice indicazione sul contenitore della merce, magari della stessa ditta destinataria della merce. In tal modo, se il container non viene intercettato alla dogana (ipotesi frequente, visto che i contenitori vengono controllati solo “a campione” e non “a tappeto”), la merce viene commercializzata, apponendoci successivamente l’etichetta “Made in Italy” con un duplice danno: per i consumatori (che pagano un prodotto a un prezzo molto superiore a quello reale) e per i produttori, artigiani in primis, che vengono progressivamente espulsi dal mercato. Tra l’altro, qui parliamo di merce “grezza” per modo di dire, visto che non si tratta di petrolio che deve essere raffinato in un grande impianto, ma – per esempio – di un capo d’abbigliamento senza etichetta sul quale poi, nella terraferma e al riparo da occhi indiscreti, viene posta l’etichetta “Armani” (o altra griffe). Se, viceversa, il carico viene intercettato alla dogana, all’importatore sarà sufficiente chiedere il dissequestro, previa apposizione dell’indicazione geografica di provenienza e poi, senza aver dovuto pagare nemmeno una multa, non solo potrà evitare un processo da imputato ma potrà rivendere quella stessa merce, a un prezzo probabilmente inferiore all’ipotesi precedente (“Armani” o “Capodimonte”), ma comunque competitivo rispetto alle imprese italiane. Tra i casi più recenti, cito i sequestri nel porto di Salerno di 385.000 oggetti di ceramica di origine cinese con fallaci indicazioni “Made in Italy” (11 maggio 2011, con articolo del quotidiano “Metropolis” di pari data) e di 717 statuette da presepe, sempre di origine cinese ma senza fallaci indicazioni “Made in Italy” (20 settembre 2011, con articolo del quotidiano “Il Mattino”, edizione di Salerno, del 23 settembre 2011).