Alla seconda ristampa “Liberi e reclusi” di Carlo Silvano
E’ stato pubblicato solo tre mesi fa e già si sta mettendo in cantiere una nuova ristampa del libro “Liberi reclusi. Storie di minori detenuti” scritto da Carlo Silvano per le Edizioni del noce (pp. 102, euro dieci, isbn 8887555834). E’ un libro che non poteva, del resto, passare inosservato, dato che l’emergenza educativa nel nostro Paese non può essere più procrastinata, soprattutto in una realtà qual è quella della metropoli di Napoli. Quello di Silvano è un testo che non riguarda solo i minori detenuti, ma anche gli adolescenti che viv0no in famiglie considerate “sane e normali”, e credono che pur commettendo un reato non finiranno mai dietro le sbarre. Purtroppo sono tanti i minori che non si rendono conto che uccidere, stuprare o spacciare droga porterà a trascorrere buona parte della propria esistenza in una cella; infatti, i minori intervistati da Carlo Silvano, hanno compreso di aver infranto le regole della convivenza sociale solo quando hanno sentito scattare ai propri polsi le manette. Con questo nuovo libro Carlo Silvano – nato a Cercola (Na) nel 1966 e dal 1999 residente nella Marca trevigiana – conferma la sua sensibilità verso gli ultimi della nostra società dopo aver pubblicato, insieme a don Pietro Zardo, un libro sulla quotidianità dei detenuti di un “normale” carcere italiano.
Dottor Silvano, perché ha scritto questo libro?
Sono convinto che genitori ed educatori abbiano bisogno di nuovi strumenti per “leggere” i comportamenti e le attese degli adolescenti, i quali, trovandosi immersi in una società che per troppi versi si presenta corrotta e disgregata, inseguono pseudo valori che non portano a nulla. I minori che sono reclusi tra le mura di un istituto penale non sono diversi da quelli che vivono in famiglie considerate “normali”, se in comune hanno il mito del denaro facile o dello sballo come carattere identitario. Conoscere, allora, le storie di adolescenti che hanno sbagliato, e per questo sono stati da un giudice affidati all’Amministrazione penitenziaria, può servire a genitori e ad educatori per impostare con i propri ragazzi relazioni feconde ed essere, per loro, degli autentici punti di riferimento ogni volta che devono assumersi delle responsabilità.
Tra le storie che riporta nel libro c’è anche quella di un ragazzo che ha commesso un omicidio…
E’ una storia dolorosa, e la vittima che porterà sempre dentro di sé questa violenza subita è il figlio dell’uomo assassinato. Io credo che lo Stato e tutte le espressionidella cosiddetta società civile debbano avere una predilezione particolare per i familiari delle vittime, che, purtroppo, in molti casi sono abbandonati a se stessi.
Si può “recuperare” un assassino? Cioè un soggetto che si è macchiato di un terribile delitto potrà mai entrare di nuovo a testa alta nella nostra società?
Più che dire si può o non si può io dico che si deve! Soprattutto se è un minore. Una società è veramente civile se nessuna delle sue “pietre vive” viene scartata. Questo vale per gli omicidi, ma anche per tutte quelle persone che vengono escluse dalla società perché improduttive, perché disabili o considerate non competitive sul posto di lavoro. Un omicida è una persona che ha commesso una terribile violenza, e deve essere posta in condizione di comprendere il proprio sbaglio e di risarcire i familiari
della sua vittima: detto questo si comprende che un omicida non finirà mai – in questa vita terrena – di pagare il proprio sbaglio. Secondo me ciò non dovrebbe tradursi nel condannare a pene eccessivamente severe tutti coloro che commettono un omicidio, ma nell’obbligarli, una volta scontata la detenzione in carcere, a eseguire, se necessario, anche un lavoro umile affinché una parte del proprio stipendio – pure se esigua – venga utilizzata per risarcire i familiari delle vittime…
Lei ha detto che soprattutto un minore omicida deve essere recuperato.
Certo, e ciò soprattutto per due motivi. In primo luogo, la vera sfida che attende ogni società civile è quella di capovolgere l’attuale corsa che porta all’esclusione di tutte quelle persone considerate un peso sociale. E’ facile escludere. E’ semplice su una lavagna divisa in due scrivere i nomi dei ragazzi buoni o cattivi della classe, come è facile andare in televisione e additare agli spettatori il mostro di turno. Ma questa non è una società civile. Una comunità veramente umana è quella che si prende dura di tutti i propri membri, e che non si gloria del reddito pro capite che certi hanno raggiunto a discapito di una buona fetta della società. Il mio ideale di
comunità è quello in cui tutte le persone vengono valorizzate e messe in condizione di poter portare il proprio mattone per migliorare la qualità della vita di tutti. Noi abbiamo sempre bisogno di poliziotti, carabinieri e magistrati onesti e competenti, ma nel nostro sistema sociale c’è soprattutto bisogno di operatori impegnati a bonificare quei tessuti sociali infettati dal virus della delinquenza. Abbiamo bisogno, in particolare, di un maggior numero di assistenti sociali e operatori di strada, capaci di individuare le nuove forme di povertà, così da poterle gestirle utilizzando canali privilegiati per offrire agli ex detenuti, ad esempio, lavori umili e posti letti in strutture protette.
In secondo luogo?
L’Italia ha un grande problema, che pochi prendono in considerazione: la denatalità che sta facendo invecchiare il nostro Paese, e costringerà le future generazioni a fare enormi sacrifici per mantenere legioni di anziani. Se da un lato bisogna incoraggiare le coppie di coniugi a desiderare e ad accogliere nuovi figli, dall’altro bisogna adoperarsi per rimettere in carreggiata quei giovani che hanno anche commesso delitti sconvolgenti. Per nessun ragazzo possiamo immaginare un futuro da trascorrere dietro le sbarre oppure fatto di privazioni, solitudini e reati sempre più gravi, ma per tutti dobbiamo impegnarci affinché possano costruire delle significative relazioni affettive e sociali, e inseriti in contesti dove il lavoro viene vissuto come un valore capace di dare soddisfazioni e un senso alla propria esistenza.
In fondo chi sono i minori reclusi nell’istituto penale da lei conosciuti?
Molti sono ragazzi che hanno alle spalle famiglie frammentate a causa di
separazioni oppure adulti che non hanno saputo o voluto dare loro regole e valori. Per tanti minori realizzare soldi con lo spaccio di droghe e sperperare il denaro in beni di lusso è uno stile di vita che li fa sentire adulti ed indipendenti. Concordo con la psicologa Luisa Bonaveno quando afferma che la mancanza di regole, o il fatto di averle infrante, rende opportuna un’esperienza di contenimento all’interno di un istituto penale; una restrizione, però, che deve essere limitata, per evitare che possa
diventare un’esperienza a rischio di fissazione dell’identità delinquenziale.
Dobbiamo tutti renderci conto che le nostre famiglie possono essere il luogo del benessere, ma anche del malessere, della grave patologia e della sofferenza psichica. Da questi mali oggi nessuna famiglia è immune.
(a cura di Armando Fiscon)